Il fatto del giorno
di Giorgio Dell'Arti
Il Medio Oriente è inquieto, centinaia di manifestazioni contro le ambasciate o i consolati si sono svolte ieri in tutta l’area compresa tra Teheran a Casablanca, con morti, feriti e scontri. In Yemen, a Sana’a, la polizia ha sparato sui manifestanti che avevano dato l’assalto all’ambasciata Usa e, entrati nel recinto della rappresentanza americana, avevano ammainato e incendiato la bandiera e dato fuoco ad alcune macchine, uccidendo una o due persone (le fonti sono discordanti) e ferendone a decine. Al Cairo scontri, cariche della polizia, lanci di lacrimogeni e sassaiole sono continuate per tutta la giornata soprattutto lungo il grande viale che da piazza Tahrir porta all’ambasciata americana. Alla fine della giornata la strada era lastricata di pietre, una massa di poliziotti presidiava l’ambasciata, gli scheletri di due furgoni incendiati testimoniavano le violenze e le tensioni della giornata. 224 persone sono andate a curarsi in ospedale, specie per via dei lacrimogeni. Altre proteste hanno avuto luogo a Teheran (davanti all’ambasciata svizzera che, mancando le relazioni diplomatiche tra Washington e l’Iran, rappresenta qui gli interessi americani). Roghi di bandiere Usa e lanci di scarpe si sono visti davanti alla moschea Baitul Mokarram di Dacca, capitale del Bangladesh. Altre manifestazioni, con slogan anti-Usa e anti-Israele, bandiere bruciate e quant’altro, si sono svolte a Najaf in Iraq. Qui il gruppo sciita Asaib Ali al-Haq ha avvertito che «tutti gli interessi americani in Iraq sono in pericolo. Il film è imperdonabile e dobbiamo stare uniti contro il nemico comune». L’ambasciata americana a Bagdad, con 15 mila dipendenti, è la più grande del mondo. Scontri si sono verificati anche a Casablanca (Marocco) in boulevard Moulay Youssef: la polizia ha arrestato decine di persone. In Pakistan sono state rafforzate le misure di sicurezza intorno all’ambasciata. In Nigeria, Indonesia, Malesia la missione diplomatica Usa ha lanciato un messaggio di emergenza agli americani che si trovano in quei paesi per metterli in guardia dalla possibilità che «estremisti possano colpire cittadini americani e di altre nazionalità occidentali». Il panico s’è diffuso persino a Berlino, dove tre persone del consolato Usa hanno accusato difficoltà respiratorie dopo essere venute a contatto con una sostanza sospetta. Un uomo è stato fermato, ma alla fine s’è capito che si trattava di un falso allarme.
• Che si sa della strage di Bengasi?
Le autorità libiche dicono di aver effettuato decine di arresti e di essere prossime alla cattura degli assassini materiali dei quattro americani. C’è stata una telefonata tra Obama e il premier libico Shagur. La presa di distanza dalle proteste anti-Usa, da parte delle autorità, è stata immediata. Persino i salafiti libici hanno respinto ogni responsabilità: la Katibat Ansar al-Sharia, cioè la Brigata dei sostenitori della Sharia, hanno condannato «le accuse prive di ogni tipo di indagine o verifica».
• Non è strano? Non è una gloria per loro ammazzare americani?
Forse non in Libia e forse non quando si tratta di un personaggio popolare e simpatico come Chris Stevens. Per i governi dell’area s’è posto quasi subito il problema dell’atteggiamento da tenere nei confronti del governo di Washington. Gli egiziani, il primo giorno, non hanno detto una parola sul massacro di Bengasi. Ma, dopo che anche russi e cinesi avevano solidarizzato con Washington, il presidente Morsi ha corretto questa esagerata impostazione iniziale. Ha parlato al telefono con Obama, poi è apparso in tv e ha invitato la Casa Bianca a «prendere misure dissuasive contro chi cerca di demolire le relazioni con gli Usa», «non accettiamo nessuna aggressione contro i nostri princìpi sacri», «il Profeta rappresenta una linea rossa che nessuno deve oltrepassare». Poi ha scritto su Facebook (certo meno seguito della tv): «Risponderemo con piena determinazione a qualsiasi tentativo irresponsabile di infrangere la legge. I diritti dei cristiani e dei musulmani sono gli stessi».
• Che cosa si sa del film?
L’Associated Press dice che colui che finora abbiamo chiamato Sam Bacile è in realtà un cristiano copto residente in California il cui nome è Nakoula Basseley Nakoula. In un’intervista proprio con l’AP il tizio aveva detto di far parte della produzione. Ma i colleghi dell’Associated Press hanno controllato con alcune fonti dell’amministrazione americana e il regista, alias Bacile, sarebbe questo Nakoula.
• Come mai tengono ancora il trailer su YouTube?
Le autorità afghane hanno chiesto ufficialmente di rimuovere il filmato. Per ora YouTube non se n’è dato per inteso. In tutta questa faccenda le questioni legate alla libertà d’espressione sono molto grosse.
• Nel senso che non è possibile impedire la realizzazione di un film anti-islamico.
È un punto che i musulmani capiscono con difficoltà: secondo loro è automatico che, se un certo film si fa, il governo sia d’accordo. Ma c’è un’altra discussione in corso, molto interessante: negli Stati Uniti è stata criticata la decisione di pubblicare la foto dell’ambasciatore morto sorretto per le ascelle, una foto davvero impressionante. Il Dipartimento di Stato ha chiesto al New York Times di togliere l’immagine dal sito. Il New York Times s’è rifiutato. Dal 1851 il motto di quel giornale è: «All the news that’s fit to print». «Tutte le notizie che è necessario pubblicare». Anche se orripilanti.
[Giorgio Dell’Arti, La Gazzetta dello Sport 14 settembre 2012]