Il fatto del giorno
di Giorgio Dell'Arti
Alle cinque di ieri pomeriggio è apparsa sugli schermi televisivi egiziani la figura magra di Omar Souleiman, il vicepresidente: «Cittadini, in nome di Dio misericordioso, nella difficile situazione che l’Egitto sta attraversando, il presidente Hosni Mubarak ha deciso di dimettersi da suo mandato e ha incaricato le forze armate di gestire gli affari del paese. Che Dio ci aiuti». Le migliaia di persone che non hanno mai abbandonato la piazza Tahir hanno preso a sventolare bandiere, grida di gioia si sono levate dalla folla, le borse sono tornate positive, il prezzo del petrolio è sceso mentre le agenzie di stampa venivano intasate dalle dichiarazioni degli uomini politici di tutto il mondo, in genere esultanti, e preoccupate solo dalle parti di Tel Aviv, dove il passaggio di mano è vissuto con una certa ansia: Israele ed Egitto sono in pace dal 1979, la direzione che prenderà a questo punto la politica estera del Cairo è un mistero. L’esultanza dei palestinesi di Gaza e i comunicati trionfalistici di Hamas e di Ahmadinejad, che auspica un Medio Oriente senza americani e senza Israele, dicono che i timori di Netanyahu non sono forse ingiustificati.
• Che fine ha fatto Mubarak?
Dovrebbe essere a Sharm-el-Sheik, con la famiglia. È probabile che poi si rifugi ad Abu Dhabi, negli Emirati, o forse addirittura a Riad. Gli svizzeri gli hanno congelato i conti.
• È molto ricco?
È accreditato di un patrimonio di 70 miliardi di dollari e di case, palazzi, grattacieli a Londra, Parigi, Madrid, Dubai, Francoforte. In America il clan dei Mubarak ha una società, la Alaa Mubarak, che possiede immobili nelle zone di pregio di Los Angeles, Washington e New York. Un paio di yacht da 80 milioni l’uno. Eccetera. Lo scrittore Aladdin Elaasar sostiene che «Mubarak ha uno stile di vita molto dispendioso con case in tutto l’Egitto». La decisione dell’altra sera di non dimettersi è stata favorita dall’improvviso appoggio di Abdullah, il re dell’Arabia Saudita, che ha messo a disposizione le sue risorse per aiutare l’Egitto, cioè di fatto per sostituirsi agli Stati Uniti (tre miliardi di dollari l’anno). Nella notte il raìs aveva parlato anche con Gheddafi, non tranquillissimo dopo le rivoluzioni d’Egitto e di Tunisia. L’incertezza riguarda in effetti non solo i destini del Cairo, ma quelli di tutta l’area. L’ultimo numero dell’Economist ha calcolato il rischio vulnerabilità dei paesi della zona. Incrociando l’indice di giovinezza della popolazione (un fattore storicamente destabilizzante), il numero di anni in cui il dittatore locale è al potere, il livello di corruzione, il tasso di democrazia, il reddito medio eccetera, si vede che le percentuali di una rivoluzione sono l’83% in Yemen, il 65% in Libia, il 64 in Siria, il 59 in Oman, il 57 in Arabia Saudita, il 50 in Algeria, il 45 in Giordania, il 42 in Marocco, il 38 in Bahrein, il 36 in Libano, il 24 negli Emirati. Lo sbarco dei disperati tunisini a Lampedusa, cu sui riferiamo a parte, ci avverte di quanto questi paesi ci siano vicini, di come l’area in questione ci riguardi.
• Il potere è passato in mano all’esercito, come si prevedeva fin dall’altro giorno?
Sì. Dovrebbe esserci un passaggio formale delle consegne da parte di Souleiman al consiglio supremo militare. In questo caso, l’uomo forte del Paese dovrebbe diventare il ministro della Difesa, Mohammed Hussein Tantawi. Gli egiziani lo considerano per ora una specie di eroe nazionale. I soldati non hanno sparato sulla folla e, quando sono intervenuti, è effettivamente finita la carneficina che aveva provocato fino a quel momento 300 morti, da imputare in gran parte alla polizia. Tantawi e gli altri graduati dovrebbero condurre il paese alle elezioni e a un inizio di vita autenticamente democratica. Se questo accadesse, se davvero in Egitto si votasse senza trucchi, se funzionassero un parlamento e una libera stampa, se insomma prendesse vita un sistema di garanzie di tipo occidentale, l’effetto sul resto del Medio Oriente potrebbe essere devastante. Dico: per i regimi autoritari che dominano laggiù, a cominciare proprio da Teheran.
• E se invece la transizione prendesse uno sviluppo islamista?
È la domanda che si fanno tutti. I Fratelli musulmani, tecnicamente ancora fuori legge, e molto defilati durante questi 18 giorni, ieri hanno elogiato i nuovi padroni, cioè l’esercito.
• Chi si candiderà alle presidenziali?
El Baradei, dopo aver manifestato tutta la sua esultanza («è il più bel giorno della mia vita»), ha detto che non si candiderà. In questo momento sembrerebbe in buona posizione Amr Moussa, segretario della Lega araba da dieci anni, già ministro degli esteri di Moubarak (nel ’91) e critico a quel tempo verso gli Stati Uniti e la sua politica filoisraeliana. [Giorgio Dell’Arti, Gazzetta dello Sport 12/2/2011]
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