Il fatto del giorno
di Giorgio Dell'Arti
Ieri il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ha respinto le dimissioni del presidente del Consiglio, Romano Prodi, e lo ha pregato di tornare alle Camere a chiedere il voto di fiducia. Prodi comincerà dal Senato: pronuncerà un discorso di politica generale, al termine del quale vi sarà un dibattito, seguìto infine dal voto. Il giorno fatidico dovrebbe essere giovedì.
• Tutto risolto?
No, perché non ci saranno problemi alla Camera, ma ce ne potrebbero essere al Senato. I senatori sono 315 e Prodi deve ottenere 158 voti, cioè la metà più uno, perché in caso di parità si considera il governo perdente. I voti dei nove partiti della maggioranza sono 156. Il senatore Marco Follini, che prima stava col centro-destra, ha detto che voterà la fiducia. Fa 157. Si potrebbe arrivare a 158 col senatore De Gregorio, che all’inizio stava col governo e adesso decide di volta in volta. Oppure col senatore Pallaro, eletto nel collegio argentino, che finora ha votato per Prodi (sia pure in cambio di finanziamenti alla comunità argentina), ma che ora vuole un governo con una maggioranza diversa.
• E i senatori a vita?
Sono sette. Di questi, quattro sono certamente fedeli a Prodi. E cioè Ciampi, Scalfaro, Colombo e Rita Levi Montalcini. Contando i sette senatori a vita, il numero totale dei senatori però sale a 322. Per ottenere la fiducia, cioè la meta dei voti più uno, bisogna quindi raccogliere 162 "sì". E non ci siam 157 + 4 fa 161, mancherebbe un voto. Oltre tutto, le ultime dichiarazioni del senatore Turigliatto, di Rifondazione, farebbero pensare che voterà contro. vero però che da qui a giovedì c’è tempo. Qualcuno da persuadere si può trovare. La convinzione generale, anche se non suffragata dai numeri, è che Prodi al Senato ce la farà. Alla Camera poi non ci saranno problemi perché lì la maggioranza di centro-sinistra è solida.
• Ma che bisogno c’era di avere due Camere? Non ci bastavano i deputati? Perché esiste anche il Senato?
Più o meno tutti i paesi hanno due Camere. Gli americani, i francesi, gli spagnoli. I tedeschi hanno il Bundesrat, gli inglesi la Camera dei Lords. vero però che si potrebbe benissimo immaginare un sistema con una Camera sola. Anzi, duecento anni fa, quando, subito dopo la Rivoluzione francese, cominciò la stagione dei parlamenti, si pensava che un sistema con una Camera sola fosse più democratico di un sistema con due. Gli spagnoli avevano una Camera sola e passavano per i più democratici di tutti.
• Perché?
Perché là dove c’erano due Camere, una delle due Camere, cioè il Senato, era di nomina regia. Cioè era il re a decidere chi poteva farne parte. Perciò la Camera, che veniva invece eletta, sentiva il Senato come un avversario che ne limitava i poteri. Per questo nel corso degli ultimi due secoli il Senato, più o meno in tutti i Paesi, ha via via perso importanza man mano che i sistemi si facevano più democratici. Fino al caso limite dell’Inghilterra dove i Lords non contano praticamente niente e anzi il titolo si può addirittura comprare.
• E da noi?
Da noi il Senato conta come la Camera, perché nessuna legge può entrare in vigore se non ha avuto l’approvazione di tutti e due i rami del Parlamento. E idem per il governo e il voto di fiducia. Però qualche traccia dell’antica nobiltà del Senato è rimasta. I senatori devono essere più vecchi dei deputati (minimo 25 anni adess ma vent’anni fa ce ne volevano 40). Inoltre, con la nomina dei senatori a vita, il presidente della Repubblica è un po’ come l’antico re: li nomina lui, di sua volontà, perché li giudica persone che hanno dato lustro al Paese. Quindi, in un certo senso, questi nostri sette senatori – compresi gli ex presidenti della Repubblica – corrispondono a dei Lord inglesi. Sono un po’ nobili. Sono una specie di microscopica Terza camera tutta patrizia. Ed è divertente vedere che l’uomo che li vuole esautorare è un leader di destra, cioè Gianfranco Fini. Mentre quelli che ne difendono il sangue blu, cioè quelli che fanno una specie di discorso in difesa del re, sono quelli di sinistra, vale a dire Prodi e i suoi. Ironie della storia, no? [Giorgio Dell’Arti, Gazzetta dello Sport 25/2/2007]
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