Il fatto del giorno
di Giorgio Dell'Arti
Che fine fanno i dati raccolti da Facebook e dobbiamo temere per la nostra privacy?
Facebook rischia di pagare caro lo scandalo sull’uso non autorizzato dei dati di milioni di utenti da parte di Cambridge Analytica. Il titolo del social network è crollato a Wall Street: ha chiuso a -6,8% ma è arrivato a perdere fino all’8%. Usa e Ue chiedono spiegazioni a Mark Zuckerberg, finora in silenzio.
• Già dal nome, Cambridge Analytica, questo caso mi sembra complicato…
Si tratta di un’agenzia informatica di big data creata da Robert Mercer, un miliardario statunitense con idee molto conservatrici, vicino all’ex stratega di Trump Steve Bannon. Questa società accumula dalla Rete dati e informazioni delle persone, poi le elabora attraverso algoritmi per creare profili di ogni singolo utente (abitudini, consumi, ricerche ricorrenti, ecc.). Quindi rivende questi profili a società e partiti politici affinché questi possano personalizzare le loro strategie di marketing o propaganda, influenzando online gli utenti. Ha presente quando le compare la pubblicità di un libro, di un albergo o di un film che richiama una ricerca che lei aveva fatto magari distrattamente qualche ora o qualche giorno prima? Ecco la spiegazione.
• Certo, mi succede sempre. Ma è legale fare questo?
Finché una società raccoglie informazioni su Facebook o su altri social da chi dà esplicitamente il consenso, è tutto regolare. Tuttavia, Cambridge Analytica ha fatto una cosa che non si può fare, stando agli attuali termini d’uso di Facebook: ha acquistato un grosso archivio di dati da un’altra società che non aveva il diritto di cedere questi dati a soggetti terzi.
• Di che mole di dati parliamo, precisamente?
Secondo i calcoli fatti dal Guardian e del New York Times, i due quotidiani che hanno realizzato per primi l’inchiesta sul caso, parliamo dei profili Facebook di circa 51 milioni di persone. Questi dati Cambridge Analytica li aveva comprati dalla società di Aleksandr Kogan, che tre anni fa aveva realizzato un’applicazione chiamata “thisisyourdigitallife” (letteralmente “questa è la tua vita digitale”). Questa app è una sorta di un gioco, tu rispondi alle domande e ottieni un tuo identikit digitale, ma nel frattempo Kogan accumula dati provenienti dalle credenziali Facebook. L’applicazione, scaricata da 270 mila persone, ha permesso di raccogliere le informazioni non solo di chi ha cliccato ok al test di personalità, ma anche dei loro amici del social network, del tutto ignari della cosa. Perciò da 270 mila si è arrivati a oltre 50 milioni di profili, che sono poi finiti a Cambridge Analytica. Così, poche centinaia di migliaia di utenti hanno involontariamente dato il via a una delle più grandi appropriazioni indebite di dati online mai avvenute.
• Come sono stati utilizzati tutti questi dati?
Soprattutto per influenzare le scelte degli elettori negli Stati Uniti e non solo. Sappiamo per certo che nell’estate del 2016 il comitato di Trump affidò a Cambridge Analytica la gestione della raccolta dati per la campagna elettorale, pagando oltre sei milioni di dollari. E l’attività online pro-Trump fu organizzata su larga scala: furono usate grandi quantità di account fasulli gestiti automaticamente per diffondere post, notizie false e altri contenuti contro Hillary Clinton. Se questo lavoro di propaganda sia stato determinante per la vittoria di Trump non possiamo saperlo ma fu sicuramente massiccio. Oltre alla campagna americana, Cambridge Analytica è stata coinvolta nella corsa all’Eliseo di Marine Le Pen e nel referendum britannico della Brexit. Inoltre, sul sito web si legge che «nel 2012 CA ha realizzato un progetto per un partito italiano che stava rinascendo e che aveva avuto successo per l’ultima volta negli Anni 80». Il caso è diventato politico. Ad esempio, il deputato britannico Damian Collins ha chiesto a Zuckerberg di testimoniare personalmente in un’indagine sull’uso dei social network nelle campagne politiche. «È ora che Zuckerberg la smetta di nascondersi dietro la sua pagina Facebook», ha detto Collins. Intanto la Commissione europea ha chiesto chiarimenti e il Parlamento europeo ha annunciato un’inchiesta.
• E Facebook, come si difende?
Dice di essere stata all’oscuro delle azioni di Cambridge Analytica, il cui account è stato bloccato venerdì. Ma non sarebbe andata così secondo Christopher Wylie, l’informatico pentito che ha lavorato nella società fin dalla fondazione e che, parlando con il Guardian e il New York Times, ha fatto scoppiare lo scandalo. Wylie afferma che Facebook sapeva sin dal 2015 delle attività illegali di Cambridge Analytica, avrebbe chiesto indietro i dati rubati con la prova della loro cancellazione ma allo stesso tempo non avrebbe rivelato nulla né ai suoi utenti né ai media. Facebook - che ha due miliardi e cento milioni di iscritti - anche se in questa vicenda fosse in buona fede mostrerebbe di avere un enorme problema nel garantire che non si faccia un uso non autorizzato dei nostri dati. E il problema non riguarda solo il social network più grande del mondo ma buona parte delle altre aziende attive online che offrono gratuitamente i loro servizi in cambio della pubblicità e della raccolta di informazioni sugli utenti, su di noi. Non sarebbe il caso di riprendere il controllo dei nostri dati online?
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