Il fatto del giorno
di Giorgio Dell'Arti
Perché la crisi dell’Ilva è l’ultima conseguenza degli errori fatti al Sud? Il governo fa saltare il tavolo con i nuovi vertici: «Servono tutele»
Migliaia di operai dell’Ilva hanno manifestato ieri a Roma, a Taranto e in tutte le città dove hanno sede gli stabilimenti del gruppo siderurgico. Contemporaneamente, il ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, ha incontrato i vertici della ArcelorMittal, la società che ha comprato l’Ilva, e li ha liquidati dopo pochi minuti, bollando come «irricevibile» il piano da loro presentato. Di fatto, Calenda ha dato ragione agli operai in piazza.
• Non capisco, non si era trovata una soluzione per questa benedetta Ilva?
Le faccio un brevissimo riassunto. L’Ilva di Taranto, l’acciaieria più grande d’Europa, dal 2012 è finita al centro di una complicata vicenda giudiziaria e politica. L’impianto è stato sequestrato per via dell’eccessivo inquinamento prodotto (gli effetti della diossina si faranno sentire ancora a lungo), i materiali prodotti sono stati bloccati e la famiglia Riva, proprietaria del gruppo, è finita sotto processo. Di fatto, l’Ilva è fallita ed è stata messo sotto amministrazione controllata da parte dello Stato. Gli amministratori, a loro volta, hanno cercato un compratore. Alla fine, quest’estate, ad aggiudicarsela è stato il consorzio formato da ArcelorMittal, la più grande azienda siderurgica europea che ha sede in Lussemburgo e da Marcegaglia, un’acciaieria italiana con una quota di minoranza nel consorzio, pari a circa il 15 per cento. A luglio, la nuova proprietà si è impegnata a riassumere 9.885 dipendenti su 14.200: in particolare, 7.600 su 11 mila a Taranto, 900 su 1.500 a Genova, 700 a Novi, 345 a Marghera, 160 a Milano e 125 a Racconigi. Circa quattromila esuberi resteranno invece in carico all’amministrazione straordinaria (cioè allo Stato) e verranno impiegati nelle operazioni di bonifica e risanamento ambientale.
• Quindi le proteste sono per i quattromila licenziamenti?
No, o almeno non solo. A spiazzare il governo e far infuriare i sindacati è stata la proposta di riassumere i lavoratori con il nuovo contratto previsto dal Jobs Act (che garantisce tutele ridotte in caso di licenziamento illegittimo rispetto ai vecchi contratti) e l’assenza di qualsiasi forma di continuità contrattuale. Tradotto: tutti gli operai saranno inquadrati come nuovi assunti, senza godere di eventuali scatti di anzianità maturati in precedenza. Il che significa rinunciare al 20 per cento circa della busta paga, 6-7 mila a testa all’anno in media. Sull’altro piatto della bilancia ArcelorMittal mette 2,4 miliardi di investimenti, l’impegno a implementare il piano ambientale e l’aumento della produzione di acciaio a 6 milioni di tonnellate l’anno entro il 2018 e quindi a 8 dopo il 2023, a piano ambientale completato.
• Il ministro Calenda cosa ha detto?
«Come governo non possiamo accettare alcun passo indietro su retribuzioni e scatti di anzianità acquisiti». E poi: «Bisogna ripartire dall’accordo di luglio, dove si garantivano i livelli retributivi. Se non si riparte da quell’accordo, la trattativa non va avanti». I nuovi proprietari si sono detti «sconcertati» per la posizione di Calenda e hanno spiegato: «Abbiamo mostrato flessibilità aumentando il numero degli occupati a 10 mila rispetto alla nostra offerta originaria. Non abbiamo tuttavia fatto alcuna ulteriore promessa a parte il numero di occupati».
• Ci attendono altri mesi di caos intorno all’Ilva?
L’impressione è che il consorzio abbia presentato un piano al ribasso, considerando inevitabile una dialettica conflittuale con governo e sindacati e sapendo che è una posizione di partenza in una trattativa non semplice. Consideri poi che sullo sfondo rimangono aperte altre questioni, a partire dall’indotto legato al settore siderurgico. Si tratta di 7.346 lavoratori che fanno capo a 346 aziende, per i quali nulla si sa al momento circa il futuro. Ballano poi 150 milioni di euro di crediti che l’Ilva deve a imprese terze. La relazione presentata dai commissari straordinari lo scorso giugno ipotizza che la nuova società rimborserà appena il 3% dei crediti verso i fornitori. Infine, aspetto tutt’altro che secondario, il piano ambientale che ArcelorMittal dovrà attuare non soddisfa né il Comune di Taranto, né la Regione Puglia.
• Al di là del caso Ilva, la mia impressione è che lo Stato abbia sempre investito poco e male al Sud. E questi sono i risultati.
È indubbio che questa vicenda rappresenti al meglio il disastro delle politiche economiche portate avanti al Meridione, insieme ai disastri del petrolchimico a Gela e della Sofer a Pozzuoli. L’illusione è che si possa procedere a un’industrializzazione del Sud come che sia, e per ragioni squisitamente politiche. L’idea di fare l’acciaio nel Mezzogiorno (dopo aver chiuso lo stabilimento di Mongiana, nelle Serre calabresi, che aveva servito i Borboni di Napoli, per trasferirne la lavorazione a Terni, assurdità dell’unificazione italiana) risale al 1904, cioè a Giolitti. L’area era Bagnoli. Inutile fare tutta la storia: la fabbrica andò benissimo finché c’era la guerra con le relative commesse, poi finì all’Iri, infine, quando si chiamava Italsider, fu venduta ai fratelli Riva. Era il 1995, lo Stato incassò 1.900 miliardi. I Riva non ne trovarono altri per produrre senza inquinare. E per vent’anni quasi tutti hanno fatto finta di non vedere.
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