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 2018  ottobre 18 Giovedì calendario

La vita triste di Flavio Bucci

«La vita è una ed è tua, puoi farci quello che vuoi. Non mi sento colpevole verso nessuno, non ho rimpianti oppure se preferisce posso dirle che ne ho, tanto non potrei cambiare niente. La verità è che tutti ti pretendono a loro immagine e somiglianza, io però sono come sono. Non mi voglio assolvere da solo e non voglio nemmeno andare in Paradiso, che poi sai che noia lassù», sghignazza tonante e tossisce Flavio Bucci, 71 anni, grigio e scarruffato, tuta blu, ciabatte e un bastone con la testa di cane che gli sostiene il passo malfermo del femore e dell’anima, fratturati e mai guariti, mentre accende e spegne e riaccende sigarette nel posacenere di plastica colmo di cicche, accanto all’espresso nella bottiglietta del succo di frutta. «Fanno male? C’è una sola cosa che ti uccide, però non lo sai prima, quale sarà».
Stendino, moschini, un tavolo, ma il mare non si vede da questo terrazzino alla periferia di Passoscuro, litorale di Fiumicino, nella casa famiglia dove l’eterno Ligabue dagli occhi spiritati vive e sopravvive, lui che casa non ne ha più e famiglie ne avrebbe – due ex mogli, Micaela e Loes, tre figli, Alessandro, Lorenzo e Ruben, più mamma Rosa che a 93 anni si raccomanda «fiulin, comportati bene» – ma uno dopo l’altro sono dovuti scappare perché «non è stato facile starmi vicino, alcuni hanno resistito e altri meno, era il mio destino», e l’unico che tiene duro è il fratello minore Riccardo, voce bassa, come lo sguardo, che l’ha tirato a riva dal naufragio definitivo nella mareggiata di alcol, sonniferi e solitudine, e lo accudisce, pure lui però tenendosi a distanza di sicurezza, come da un cavo elettrico scoperto.
«Anni fa tu attore ti sentivi parte di un mondo, sentivi di contare qualcosa», ricorda Bucci in una sequenza di Flavioh (con la o allungata del romanesco) – Tributo a Flavio Bucci, il film documentario di Riccardo Zinna (scomparso un mese fa) e Marco Caldoro, che sabato viene presentato alla Festa del Cinema di Roma, due anni di viaggio in camper e nella memoria di«un uomo spigoloso e caparbio». Dai pomeriggi di bambino al Cinema Teatro Maffei di Torino «dove c’era la rivista, le ballerine, la musica, il pacchetto completo dell’esistenza», ai vent’anni e al treno per Roma, a casa dell’amico Gian Maria Volontè «che abitava a Trastevere in vicolo del Moro e appena arrivato mi trascinò dentro un portoncino per farmi iscrivere al Pci» e poi subito sul set di La classe operaia va in paradiso (1971) di Elio Petri «che chiamavo Capoccione, perché aveva grandi idee ma anche una testa enorme, e se sbagliavi ti menava, quante botte ho preso, Volonté no, che era un bestione» e due anni dopo in La proprietà non è più un furto con Ugo Tognazzi «l’unico che sapeva vivere davvero».
Nel 1977 presta lo sguardo stralunato al pittore Ligabue, sceneggiato Rai che lo consacra: «Fatica psicofisica immane, tre ore di trucco, pieno di lattice sulla faccia e due calotte sulla testa che mi gratto ancora oggi». Con Alberto Sordi, sul set del Marchese del Grillo di Monicelli (1981) dov’era don Bastiano, non scattò simpatia: «No, no, mi stava proprio sui co... Ogni giorno, mentre pranzavo nel camper, bussava il suo assistente. “Chiede Alberto se t’avanza qualcosa per i cani”. “Niente, digli che mi so’ magnato pure le ossa”».
Per allenarsi fa pure il doppiatore, è lui Tony Manero nella Febbre del Sabato Sera. «Mi presentano a Travolta: “Vedi John, lui è la tua voce italiana”. E io: ma sarà lui che è la mia faccia americana». Con Michele Placido, Stefano Satta Flores e Mario Gallo produce Ecce Bombo di Nanni Moretti: «Primo piano. Dopo 45 ciak mi chiede: tu come la faresti questa inquadratura? (lo imita, è uguale ndr). Ma fa un po’ come ca... ti pare. Noiosissimo». Guadagna «anche due milioni di lire al giorno, spesi tutti in donne, manco tanto, che me la davano gratis, vodka e cocaina. Scarpe e cravatte che non mettevo mai. Mi sparavo cinque grammi di coca a botta, solo di polvere avrò bruciato 7 miliardi. L’alcol mi ha distrutto? Ha provato a ubriacarsi? È bellissimo. Lasci perdere discorsi di morale, che non ho. E poi cos’è che fa bene? Lavorare da mattina a sera per arricchire qualcuno? Non sono stato un buon padre, lo so. Ma la vita è una somma di errori, di gioie e di piaceri, non mi pento di niente, ho amato, ho riso, ho vissuto, vi pare poco?».