Huffington Post, 18 ottobre 2018
La sindrome della manina ha colto Di Maio
La giornata stava volando via tutto sommato tranquilla rispetto al tour de force e alle tensioni che si sono rincorse nelle ultime settimane, quando intorno alle 20 della sera le agenzie battono l’imponderabile. Testuale: “FLASH – Manovra: Di Maio, al Quirinale testo manipolato, denuncia a procura”. “Non so se è stata una manina politica o una manina tecnica, in ogni caso domattina si deposita subito una denuncia alla Procura della Repubblica perché non è possibile che vada al Quirinale un testo manipolato sulla pace fiscale”, recita il testo dell’agenzia. Panico. Si rincorrono telefonate e messaggi. I 5 stelle che rispondono spiegano che probabilmente il capo politico 5 stelle si riferisce al documento che deve ancora essere spedito, qualora non arrivasse come concordato durante l’ultimo Consiglio dei ministri, qualcuno parla di errore dei giornalisti che stavano assistendo alla registrazione di Porta a Porta. Ma errore non è. È una vera è propria sindrome della manina. Perché le parole del vicepremier sono studiate. Mentre parla, i suoi social diffondono lo stesso messaggio a tamburo battente. Nero su bianco questa volta, senza possibilità di errori o fraintendimenti.
Il punto è che non esiste nessun testo. Perché al Cdm si è raggiunto un accordo politico, e il testo del decreto fiscale – un collegato alla manovra oggetto dell’attacco di Di Maio, al Colle non c’è. Prima di arrivarci deve essere bollinato dalla Ragioneria generale dello stato. Che al momento sta ancora lavorando a pieno regime. Una fonte del ministero dell’Economia spiega in tempo reale ad Huffpost: “Non so proprio a cosa si riferisca, servono ancora almeno 36-48 ore prima di avere l’articolato definitivo”.
E quindi? Quindi succede che arriva una nota dell’ufficio stampa di Sergio Mattarella: “Si precisa che il testo per la firma del presidente della Repubblica non è ancora pervenuto al Quirinale”. Cortocircuito. La comunicazione 5 stelle inizia a ricalibrare il tiro: “Non sarà definitivo ma una manina c’è comunque stata”. Portano in studio a Di Maio – che sta continuando a registrare – la smentita quirinalizia. Il ministro corregge il tiro: “I miei uffici mi avevano detto che era stato trasmesso. Ma se non è così non serve un nuovo Cdm, basta stralciare le norme”.
Qui occorre fare un passo indietro. Nel pomeriggio inizia a circolare una bozza del dl fiscale. Da prendere come tale. Però in effetti l’articolo 9 ha un testo esplosivo per i 5 stelle. Senza scendere in tecnicismi, basti dire che permetterebbe di elevare la soglia del condono dai 100mila euro previsti fino a 2,5 milioni, permettere uno scudo fiscale per i capitali esteri e infine dare un colpo di spugna al reato di riciclaggio. Effettivamente indigeribile per Di Maio. Chi è stato a modificare il testo? I suoi colonnelli tentano l’esegesi del Di Maio pensiero. Alcuni attribuiscono le responsabilità agli ormai famigerati tecnici del Mef. Ma i più puntano il dito contro la Lega. Manca poco che i pochi esponenti del Carroccio che rispondano al telefono lo sbattano in faccia ai cronisti. I vertici fanno filtrare parole durissime: “Noi siamo gente seria e non sappiamo niente di decreti truccati”. E così anche lo stesso Giorgetti, uno dei principali indiziati per i 5 stele, si tira fuori. Fonti della Lega fanno notare che il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, lunedì sera ha lasciato prima la riunione del Cdm in cui è stato approvato il decreto fiscale: non è rimasto fino al voto finale e non ha neanche firmato il verbale finale.
Il punto rimane che un testo non esiste. Non ufficiale almeno. Verso le 22 Palazzo Chigi corre in soccorso di Di Maio. Fonti vicine a Conte fanno sapere che il premier, informato delle criticità, ha bloccato l’invio ufficiale del testo, che era stato anticipato in via meramente informale al capo dello Stato. E che prima della missiva definitiva lo stesso presidente del Consiglio lo vorrà rivedere “articolo per articolo”.
Una fonte di governo consultata da Huffpost spiega che in giornata premier e vicepremier si sono sentiti. E che lo stesso Conte, recepita la furia del capo politico M5s, abbia informato il Colle che il testo “ufficioso” che sarebbe effettivamente stato inviato per una ricognizione preliminare di cortesia era da considerarsi carta straccia.
La rabbia pentastellata nei confronti del Carroccio ha lunghe code notturne. Tanto che c’è chi, nella metà gialla del governo, non esclude affatto un altro passaggio del testo in Cdm: “A questo punto tutto può essere, non ci fidiamo più di nessuno”. Anche perché l’occhio di bue acceso sul ministero dell’economia non si è affatto spento.
Per capire il clima che si respira a via XX settembre basta citare un episodio. Mercoledì mattina Alessio Villarosa, sottosegretario M5s all’Economia, viene convocato da Di Maio. Uffici in totale fibrillazione, parte una girandola di ipotesi sul fatto, che alla fine convergono su una tesi: il vicepremier vuole capire qual è la situazione al Mef e tirare le fila.
Situazione di per sé infuocata, da quando Roberto Garofoli, capo di gabinetto di Giovanni Tria, è stato ritenuto dai 5 stelle il “colpevole” di aver inserito nella decreto fiscale una norma che assegna 28 milioni l’anno per tre anni alla Croce Rossa, ente in liquidazione coatta, non concordata da nessun ministero. Scatenando una durissima reazione dei vertici 5 stelle (tra Garofoli e Di Maio non è mai corso buon sangue), che ne hanno chiesto le dimissioni. E una controreazione da parte del ministro, che ha alzato le barricate in difesa del suo uomo.
Villarosa in effetti si è sì recato al Mise, ma per discutere con il capo politico 5 stelle di una specifica situazione sui dipendenti di Poste, sollevata dal sottosegretario e di competenza del ministro. Ma in un clima di tensione assoluta, qualsiasi corda toccata basta per far sobbalzare sulla sedia gli uni o gli altri.
Anche perché il clima è tornato a surriscaldarsi dopo la nota mattutina di Francesco D’Uva. Che non è un peones qualunque, ma il capogruppo stellato alla Camera. “Il capo di gabinetto del Mef Garofoli – dice – non può non conoscere i dettagli che abbiamo richiesto”. E aggiunge: “Il Ministro ha parlato di proposta ma non si è capito da chi arriva questa proposta e perché il ministro competente ed il nostro premier Giuseppe Conte non ne sapessero niente”.
Dettaglio fondamentale, quest’ultimo. Perché nella difesa del suo uomo Tria aveva così parlato: “"È del tutto privo di fondamento e irrazionale l’attacco rivolto a Garofoli. La norma era sollecitata da tempo dal ministero della Salute e dal Commissario liquidatore”. Il punto è l’entourage di Giulia Grillo ha spiegato alla war room stellata che di quel codicillo non sapevano nulla. Rendendo di fatto falsa la spiegazione di Tria. Così è partita la macchina della risposta ufficiale, affidata a un’autorevole fonte parlamentare, ma non allo stesso ministro, per evitare un’ennesimo scontro nell’esecutivo.
Ma era mattino. Nessuno ancora poteva immaginare che la sindrome della manina si sarebbe diffusa lungo la giornata. E che a sera sarebbe diventata una vera e propria pandemia.