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 2018  ottobre 16 Martedì calendario

Le aziende delocalizzano

Cambia l’origine della multinazionale, il numero dei licenziamenti e le modalità di spostamento della produzione dall’Italia a un altro Paese, ma il risultato resta lo stesso. Nonostante il decreto antidelocalizzazione, la norma fortemente voluta dal ministro dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio per fermare la fuga delle aziende straniere dal territorio nazionale, la fuga non si è placata. Anzi si scappa che è una bellezza. Il primo caso, quello che ha acceso il campanello d’allarme, si è registrato poche settimane fa a Figline Valdarno, con i belgi della Bekaert che un bel giorno si sono svegliati ed hanno annunciato ai 318 lavoratori del sito toscano che non servivano più. Che da lì a qualche giorno lo stabilimento avrebbe chiuso i battenti e che la stessa produzione sarebbe continuata in Romania, dove, grazie al basso costo del lavoro, come per magia, i numeri sarebbero tornati in territorio positivo. La questione in breve tempo da meramente economica e sociale si è trasformata in una questione politica. Ne hanno iniziato a parlare i giornali, le tv e ovviamente gli avversari dei grillini, per cui Di Maio ha dovuto reagire. E non avendo armi per far cambiare idea ai i belgi – mancava il presupposto punitivo del decreto, in quanto la Bekaert non aveva ricevuto finanziamenti pubblici – se l’è cavata con i sussidi, reintroducendo la cassa integrazione per cessazione d’attività. Sono passati pochi giorni e la situazione si è ripetuta. Dalla Toscana ci siamo spostati in Lombardia, dove da tempo opera con discreti risultati la multinazionale danese Nilfisk. Anche in questo caso ?gli stranieri? si sono svegliati un bel mattino e hanno annunciato che 97 dipendenti su 138 sarebbero rimasti a casa. Con un aggravante. A inizio anno i manager danesi avevano dichiarato la volontà di spostare la produzioni delle idropulitirici aziendali in Ungheria, assicurando però che nel sito di Guardamiglio nel Lodigiano non ci sarebbero state ripercussioni, perché qui si sarebbero realizzate altre spazzatrici, quelle stradali. Detto, fatto. Da lì a poco alcuni dipendenti italiani si sono spostati in Ungheria per formare i colleghi magiari, ignari del fatto che stavano insegnando il mestiere a chi gli avrebbe rubato il posto di lavoro. La produzione delle spazzatrici stradali di cui sopra, infatti, si è rivelata un flop e la Nilfisk ha deciso di smantellare Guardamiglio. Ora la palla passa al Mise che però anche in questo caso non può nulla perché pure gli scandinavi non hanno ricevuto aiuti di Stato. Al vicepremier grillino resta la solita arma, quella di far intervenire lo Stato e quindi, alla fine, di far pagare gli italiani. L’ha fatto con Bekaert, Ilva (esodo incentivato da 100 mila euro) e Industria Italiana Autobus – dove saranno coinvolte Ferrovie, Leonardo e Invitalia – ma è lo stesso piano che ha in mente per Alitalia, con la conversione in azioni del prestito ponte da 900 milioni e il ruolo forte di Ferrovie e Cdp. Tant’è che sorge un dubbio. Non è che i manager delle varie multinazionali hanno capito l’antifona e ne approfittano? Se prima avevano delle remore a lasciare il Belpaese ora non si fanno grandi scrupoli. Tanto con il Cinque Stelle al governo alla fine paga Pantalone. riproduzione riservata Il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, all’assemblea nazionale di Confimi Industria si dice «assolutamente convinto che il lavoro non si crei per decreto» e «che questo Paese non abbia bisogno di assistenza, ma di impresa e lavoro vero». Il leader della Lega rispondeva a Paolo Agnelli, presidente di Confimi Industria, dicendosi d’accordo con la sua analisi. «Negli ultimi dieci anni, in Italia, hanno chiuso i battenti quasi 750mila imprese», ha spiegato Agnelli, «la produttività è scesa del 25% e la povertà è raddoppiata arrivando a toccare 5 milioni di persone». «Da diversi anni», afferma il numero uno di Confimi, «vediamo la politica e le università consegnarci ricette per creare posti di lavoro attraverso modifiche di norme giuslavoristiche e su assunzioni e licenziamenti. Nel frattempo «un centinaio di grandi aziende storiche del made in Italy sono state cedute ad aziende o fondi esteri». Il tutto per «voler ottusamente tassare preventivamente elementi come lavoro ed energia, indispensabili per la sopravvivenza e la concorrenzialità delle imprese che esportano».