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 2018  settembre 14 Venerdì calendario

Un’anticipazione dal libro di Bob Woodward

Non essendo riuscito a controllare o tenere a freno l’uso di Twitter del Presidente, Priebus (Reince, capo dello staff fino al luglio 2017, ndr) aveva fatto di tutto per trovare un sistema pratico. Poiché i tweet erano spesso scatenati dall’abitudine del presidente di guardare ossessivamente la televisione, aveva cercato un modo per spegnergliela. Ma guardare la tv è quello che Trump fa di default. La domenica notte era il momento più drammatico. Trump tornava alla Casa Bianca da uno dei suoi weekend trascorsi su un campo da golf appena in tempo per guardare i talk show di politica sui suoi canali nemici, ovvero Msnbc e Cnn.
Il presidente e la first lady hanno due stanze da letto separate nel loro appartamento alla Casa Bianca. Trump ha un televisore gigante acceso quasi ininterrottamente, e resta nella sua camera da solo, in compagnia del telecomando, del TiVo e del suo account twitter. Priebus chiamava la stanza da letto del presidente «la fucina del demonio», e le prime ore del mattino e quelle ore pericolose della domenica notte, «l’ora delle streghe». (….)
Quando Trump e il leader nordcoreano Kim Jong-un avevano cominciato a scambiarsi accuse reciproche, e ad alzare i toni, Trump era stato ammonito che «Twitter potrebbe portarci alla guerra».
«Questo è il mio megafono», aveva ripetuto lui. Sebbene la Casa Bianca disponesse di siti Facebook e Instagram, Trump non li usava. Restava aggrappato a Twitter. «Sono fatto così, è così che voglio comunicare. Per questo motivo sono stato eletto, e questo è il motivo del mio successo».
I tweet non sono solo di contorno alla sua presidenza, ma ne formano il nocciolo centrale. Trump aveva ordinato di stampare i suoi tweet più recenti, quelli che avevano raccolto il maggior numero di like, dai 200 mila in su. Li studiava per scovare le tematiche comuni in quelli di maggior successo. Sembrava voler affinare le sue strategie, scoprire se il suo successo dipendeva dall’argomento, dal linguaggio o semplicemente dall’effetto sorpresa di vedere che il presidente interveniva di persona in qualche dibattito. Difatti, i tweet che colpivano maggiormente il pubblico erano spesso quelli più scioccanti.
Successivamente, quando Twitter ha annunciato che il numero dei caratteri disponibili per ogni singolo messaggio era stato raddoppiato da 140 a 280, Trump ha detto a Porter (Rob, il segretario dello staff poi dimessosi a febbraio 2018, ndr) che secondo lui quel cambiamento era stato dettato dal buon senso. Adesso sarebbe stato in grado di spiegarsi meglio e di approfondire gli argomenti.
«Mi sembra un’ottima cosa», aveva detto «anche se un po’ mi dispiace, perché mi ritengo l’Ernest Hemingway dei 140 caratteri».
La regola dell’improvvisazionePrima che il presidente si ritirasse nel suo appartamento al termine di ogni giorno, Porter gli consegnava una cartella contenente i dossier da studiare, le circolari e i rapporti di politica, e il programma per la giornata successiva.
La mattina seguente, Trump si presentava nell’Ufficio ovale alle 10 o alle 11, talvolta persino alle 11.30.
«Che cosa c’è in programma per oggi?» chiedeva, dopo aver dato forse un’occhiata frettolosa alla sua cartella, quando non aveva dimenticato di farlo. Sembrava voler trasmettere la sensazione che la sua forza stava proprio nell’improvvisazione, nella sua capacità di capire al volo ogni situazione, di intuire gli umori di quanti gli stavano intorno nella stanza. O di saper cogliere l’attimo, come durante la campagna elettorale.
Trump amava fare le cose su due piedi, sull’onda del momento, era questa la conclusione a cui era giunto Porter. Si comportava come se dedicarsi a un’attenta preparazione avrebbe in qualche modo sminuito o compromesso le sue capacità di improvvisazione. Non voleva essere sviato da riflessioni e giudizi ponderati. Come se un’oculata pianificazione avrebbe potuto privarlo dei suoi poteri, del suo sesto senso.
Un ragazzino di quinta elementareMcMaster (il consigliere per la sicurezza nazionale dimessosi ad aprile, ndr) aveva organizzato una riunione del Consiglio di sicurezza nazionale nella situation room, la sala operativa della Casa Bianca, per il 19 gennaio del 2018. L’incontro prevedeva una discussione delle questioni relative alla Corea del Sud tra il presidente e i suoi principali consiglieri – Tillerson, il segretario di stato, Mattis (segretario alla Difesa, ndr), Kelly, McMaster, Dunford e Cohn.
Trump era andato subito al sodo. «Che cosa ci guadagniamo a mantenere una massiccia presenza militare nella penisola coreana?», voleva sapere, tornando sul suo chiodo fisso dei soldi e delle forze armate. (...) Ai suoi occhi questo era uno dei principali problemi a livello mondiale, il fatto che gli Stati Uniti finanziavano la difesa di altri Paesi in Asia, in Medio Oriente e nella Nato. (...)
«Stiamo facendo tutto ciò per scongiurare la Terza guerra mondiale», aveva detto Mattis. Appariva calmo ma determinato. Era una dichiarazione sconvolgente, una sfida al presidente, l’insinuazione che volesse rischiare una guerra nucleare. Il tempo sembrò essersi fermato per più di una persona presente. (...) Sembrava che Mattis e gli altri stessero davvero per perdere la pazienza con il presidente. Come faceva a mettere in dubbio situazioni così ovvie e così fondamentali? Era come se Mattis gli volesse dire: Dio santo, finiscila una buona volta!
«Quando penso che potremmo essere così ricchi», diceva Trump, «se non fossimo così stupidi. Ci prendono in giro, ci trattano da idioti, specie la Nato». (...) A quel punto Trump aveva lasciato la sala operativa. Tra i presenti si avvertiva un senso di esasperazione davanti alle sue domande. Perché ci ritroviamo sempre a questo punto? Quando imparerà? (...) Mattis sembrava particolarmente esasperato e allarmato, e diceva ai suoi collaboratori che il presidente si comportava come un bambino di quinta elementare – e a tanto ammontava il suo livello intellettivo.
«In manicomio»In una riunione ristretta nel suo ufficio, un certo giorno, Kelly (l’attuale capo dello staff, ndr) aveva detto del presidente: «È un idiota. È inutile cercare di convincerlo di qualunque cosa. Ormai è uscito dai binari. Siamo in un manicomio». «Non so nemmeno perché tutti noi ci troviamo qui in questo momento. È il lavoro peggiore che abbia mai avuto».
Il ruolo di «Jarvanka»«Secondo te non dovrebbero essere qui?» Trump aveva chiesto diverse volte.
«No, non dovrebbero essere qui», gli aveva risposto Priebus. Ma non era cambiato nulla. Priebus era convinto che non c’era nient’altro che potesse fare per allontanare la figlia e il genero di Trump dalla West Wing. (…)
Durante un incontro nell’ufficio di Priebus, Bannon (Steve, ex consigliere del presidente, ndr) e Ivanka si erano messi a litigare.
«Tu sei un membro dello staff!» alla fine Bannon aveva urlato a Ivanka. «Non sei altro che un membro dello staff, come tutti gli altri!». Anche lei doveva passare attraverso il capo di gabinetto, come facevano gli altri, le aveva detto. Bisognava mettere ordine. «Te ne vai in giro per la Casa Bianca e ti dai le arie di essere quella che comanda da queste parti, ma non è così. Anche tu fai parte dello staff!». «Non faccio parte dello staff!» le aveva urlato lei di rimando. «E non lo sarò mai. Io sono la first daughter – aveva usato davvero quel termine – e non chiamatemi mai un membro dello staff».
(traduzione di Rita Baldassarre)