Il Sole 24 Ore, 14 settembre 2018
L’ombra delle nuove Lehman a dieci anni dal crack del secolo
«La crisi è come un videogame. Compare un mostro, lo combatti, lo vinci, ti rilassi e subito spunta un altro mostro più forte». Forse la definizione più azzeccata della grande crisi l’ha data anni fa l’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Iniziata nel 2007 con la sbronza di mutui subprime negli Stati Uniti e deflagrata il 15 settembre 2008 con il crack di Lehman Brothers, la crisi in un decennio si è infatti evoluta in una recessione economica, in una crisi degli Stati europei, fino a stravolgere le fondamenta di società e politica. Da allora la Borsa si è ripresa e ha raggiunto negli Stati Uniti vette mai viste. L’economia in molte parti del mondo ha messo il turbo. Eppure gli strascichi di quel crack sono ancora intorno a noi. Nulla è più come prima. E la crisi, quella profonda, non è ancora passata.
Ecco perché a 10 anni esatti dal fallimento di Lehman è naturale chiedersi quali possano essere i prossimi «mostri» contro i quali bisognerà combattere. Come in qualunque videogame che si rispetti è impossibile saperlo fino a quando non si passa di livello, ma guardando in faccia alla realtà una cosa si può affermare: le prossime forze contro cui si dovrà combattere avranno sembianze molto diverse da quelle del passato. Perché se gli squilibri che dieci anni fa causarono la crisi finanziaria oggi sono meno gravi (il mercato delle cartolarizzazioni non è più esagerato come allora, il settore dei derivati è cambiato, le banche sono state ricapitalizzate), nuove complicazioni sono emerse. E sono paradossalmente figlie proprio delle misure adottate da Governi e banche centrali: sconfitti i mostri di una volta, il rischio è che le regole create per rendere il mondo più sicuro ne abbiano creati di nuovi. In questa inchiesta, vediamo dove potrebbero trovarsi le future Lehman.
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datemi una leva
L’eccesso di debito: 247mila miliardi
Dopo il crack Lehman una delle contromisure più efficaci adottate per evitare il collasso globale fu il cosiddetto quantitative easing. Prima la Federal Reserve negli Stati Uniti, poi le altre Banche centrali hanno pompato liquidità sui mercati per rimetterli in sesto, iniettando sul mercato finanziario – secondo Yardeni Research – circa 11mila miliardi di dollari. E hanno mantenuto i tassi d’interesse a zero per anni. Gli stimoli monetari sono stati un medicinale salva-vita per un’economia mondiale strozzata dalla stretta creditizia. Ma le condizioni di finanziamento estremamente favorevoli mantenute a lungo hanno anche creato nuovi squilibri, potenziali «mostri».
Ad esempio hanno favorito il ricorso al debito pubblico e privato, che ormai ammonta a 247 mila miliardi di dollari (stima Iif). A preoccupare oggi sono soprattutto le imprese. L’incidenza del debito societario sul Pil globale – stando ai calcoli di S&P – in 10 anni è passata dall’81% al 96%: una crescita che è andata di pari passo con un peggioramento della qualità del debito stesso. Sempre S&P infatti stima che ormai il 37% dei circa 66mila miliardi di debiti societari globali faccia capo ad aziende dalla leva finanziaria elevata, soggetti che sono più vulnerabili. Ma il problema sono anche le modalità con cui i debiti sono stati erogati. Questo è il secondo grande rischio sistemico di oggi: il sistema bancario «ombra».
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lo «shadow banking»
I nuovi soggetti
«too big to fail»
A finanziare questa gigantesca espansione creditizia, questa volta, non sono infatti state le banche, ma in gran parte il sistema finanziario: fondi e investitori che hanno comprato grandi quantità di obbligazioni aziendali. Perché le regole partorite per rendere meno pericolosi gli istituti creditizi hanno creato un effetto indesiderato: hanno fatto crescere il sistema bancario «ombra» (shadow banking), ovvero quell’insieme di soggetti che svolge parte dell’attività bancaria pur non dovendo sottostare a regole altrettanto severe. Su questo settore si concentrano oggi molte preoccupazioni delle Autorità, tanto che persino il presidente Bce Mario Draghi ha ieri ammesso che «una grossa parte del business bancario è migrata nello shadow banking».
Il primo motivo di preoccupazione è l’eccesso di risk taking. Dato che le banche centrali hanno tagliato i tassi d’interesse a zero, i titoli più sicuri hanno perso appeal fra gli investitori perché non offrono alcun rendimento. Si pensi che nel 2007 oltre l’80% dei titoli dell’indice Bank of America Global Bond aveva un tasso superiore al 4%, mentre oggi la quota si è ridotta a un misero 5 per cento. Questa «anoressia» da rendimenti ha spinto gli investitori (cioè lo shadow banking) a spingersi sempre più su bond a elevato rischio. Così le imprese ne hanno approfittato emettendo obbligazioni in grandi quantità. Il mercato dei bond rischiosi e redditizi (high yield) è infatti raddoppiato in 10 anni, con emissioni record per oltre 508 miliardi di dollari nel 2017. Nel 2007 su 100 corporate bond emessi nel mondo, secondo l’Ocse, 80 avevano un rating investment grade (dunque un’elevata affidabilità) e 20 erano high yield. Oggi invece solo 58 su 100 bond aziendali hanno rating affidabile. Il discorso vale anche per altre classi di investimento ad alto rischio che hanno riscosso molto successo in questi anni: come i titoli di Stato e i bond societari dei Paesi emergenti.
Il secondo problema è legato all’illiquidità dei mercati obbligazionari. Paradossalmente nell’era delle grandi creazioni di moneta da parte delle banche centrali, gli scambi sui mercati si sono ridotti: questo significa che è molto più difficile di un tempo vendere titoli obbligazionari se lo si desidera. Questo perché le regole varate in questi anni hanno scoraggiato le grandi banche d’affari a svolgere l’attività di market maker. In sostanza, non esiste più nessuno che garantisca l’esistenza di un mercato secondario per i bond, che tradizionalmente non hanno vere e proprie Borse su cui sono scambiati. Così oggi le aziende emettono obbligazioni, gli investitori le acquistano, ma poi su quei titoli il più delle volte non esiste alcun mercato secondario. In Europa – secondo le l’Esma – esistono attualmente solo 221 bond liquidi (includendo i titoli di Stato): tutti gli altri sono «congelati». Dunque, di fatto, invendibili. Ecco perché i fondi che hanno grandi quantità del mercato obbligazionario in portafoglio destano qualche preoccupazione: se per qualunque motivo scoppiasse il panico sui mercati e i clienti ritirassero i soldi, questi si troverebbero a dover liquidare un portafoglio che in buona parte è invendibile. Questo è un rischio soprattutto per i grandi gruppi del risparmio gestito. Una crisi di liquidità (quella che 10 anni fa colpì proprio Lehman) potrebbe prima o poi interessare anche questa industria: lo shadow banking.
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Credito
I rischi rimasti
nel sistema bancario
Dato che la crisi 10 anni fa è nata dalle banche, buona parte della regolamentazione prudenziale partorita successivamente ha avuto – come detto – proprio gli istituti di credito come obiettivo. Calcola Boston Consulting che da allora nel mondo sono state varate 200 normative per «imbrigliare» le banche. Questo ha ridimensionato il rischio nel settore creditizio, al pari dei tanti aumenti di capitale che l’hanno rafforzato in generale. Lo stesso Mario Draghi ieri ha ricordato che attualmente le banche europee hanno un coefficiente patrimoniale (Cet1) medio del 15,6% contro l’8,5% del 2008. Eppure non si può dire che oggi i rischi siano eliminati del tutto dal sistema creditizio. Per due motivi: da un lato perché esistono ancora grosse banche con debolezze strutturali, dall’altro perché negli Usa l’amministrazione Trump ha già iniziato a smontare parte delle regole prudenziali (già annacquate) varate da Barack Obama.
In Europa molte grosse banche hanno per esempio ancora i bilanci pieni di titoli illiquidi (quelli una volta definiti «tossici» e oggi più prosaicamente «Livello 2 e 3»). Uno studio di Bankitalia denuncia che nei bilanci delle banche europee si trovano 6.800 miliardi di euro di questi attivi e passivi: una cifra pari a 12 volte i crediti in sofferenza. Tre quarti di questa montagna di asset illiquidi si trovano in Germania e Francia. Gli occhi sono dunque sempre più puntati su colossi come Deutsche Bank, Bnp Paribas e SocGen, sui quali anche la Vigilanza europea ha acceso un (tardivo) faro. Il problema dei titoli illiquidi è che le banche li iscrivono a bilancio a valori opinabili: il loro prezzo non viene stabilito infatti dal mercato (che per quei titoli non esiste), ma da calcoli matematici che la Bce non è in grado di valutare. Come se gli istituti di credito facessero delle «auto-perizie» insomma. «Le banche – scrive dunque Via Nazionale – sono incentivate a usare questa discrezionalità a proprio vantaggio». Il valore di questi asset potrebbe quindi essere gonfiato. E questo, su numeri così giganteschi, è un problema: perché basterebbe che questi titoli illiquidi fossero svalutati del 5%, per bruciare 350 punti base di capitale delle 18 banche più esposte.
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Banche centrali
Termina l’era
del denaro facile
Denaro, denaro e ancora denaro. Per scongiurare il collasso del sistema finanziario le banche centrali di tutto il mondo hanno adottato una cura da cavallo: iniettare liquidità sui mercati, acquistando quasi ogni tipologia di attività finanziarie nel tentativo di innescare un meccanismo a catena tale da trasmettere gli effetti all’economia reale. Il risultato è un flusso quasi ininterrotto che, se da una parte ha finito come si è visto per gonfiare il valore degli stessi asset – azioni, titoli di Stato, bond corporate e high yield – oggetto dei piani, dall’altra ha ingrassato a dismisura i bilanci delle banche centrali stesse. Se si include nel calcolo anche la Cina, questi ultimi hanno infatti complessivamente raggiunto una cifra astronomica che sfiora i 20mila miliardi di dollari, che ora però è destinata necessariamente a diminuire perché il quantitative easi ng non può continuare all’infinito, a maggior ragione quando il paziente sembra sulla via della guarigione e occorre tornare a un mondo «normale».
La Federal Reserve, prima a muoversi a suo tempo, ha interrotto gli acquisti già a fine 2014 e da qualche mese ha anche smesso di reinvestire il denaro proveniente dai titoli scaduti e dalle cedole incassate, così il suo patrimonio ha iniziato progressivamente a scendere dalla cifra record di 4.500 miliardi di dollari. Le altre, comprese le «munifiche» Bce e BoJ, seguiranno a distanza in un processo inevitabile che tiene in apprensione gli investitori. Quali effetti possano accompagnare una simile cura dimagrante è infatti difficile da prevedere, perché come nel caso delle precedenti iniezioni di liquidità anche in questa situazione ci si sta avventurando in un territorio inesplorato. È evidente che l’impatto sul valore dei titoli, spinti su livelli record anche e soprattutto da quel «denaro facile», rischia di essere tale da innescare a sua volta una nuova crisi.
Certo, le Banche centrali appaiono ben consapevoli del pericolo e si muovono con i piedi di piombo, cercando di essere più prevedibili possibile anche a costo di apparire noiose nelle loro misure ed esternazioni. Ma il quantitative tightening giunge in un momento in cui il ciclo economico attraversa ormai una fase di maturità ed è per giunta minacciato sia dalle incognite che gravano sul commercio internazionale, sia da quella dose di incertezza politica causata dall’avanzata di forze anti-sistema definite «populiste» con un’eccessiva dose di fretta e approssimazione. Un mix di fattori che ancora una volta rischia di essere letale.
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Algoritmi
La matematica
e i mercati
La stessa Commissione d’inchiesta sulla crisi del 2008 del Congresso Usa lo ricorda: «I modelli matematici sui mortgage backed securities (Mbs) non erano adeguati». Non solo: i maghi delle cartolarizzazioni, nell’individuare il rating per gli Mbs (titoli garantiti dai mutui), hanno sfruttato a piene mani formule matematiche troppo semplificate. Soluzioni eleganti sulla carta inadatte però a descrivere la realtà. Tanto che, alla fine, la matematica ha contribuito a fare saltare il banco. Certo: l’algoritmo non è cattivo in sé. Si dirà: è l’uso che se ne fa che rileva. Vero! E tuttavia oggi i mercati, ben di più che nel 2008, sono «impregnati» di tecnologia. I trader robot, ad esempio, gestiscono oltre il 66% degli scambi azionari cash globali. Mentre i consulenti automatici, nel 2022, arriveranno a gestire 1.335 miliardi di dollari. Insomma: c’è l’iper-tecnologizzazione delle Borse.
Un fenomeno che porta con sé diversi rischi. A ben vedere non è solo il timore di evitare il ripetersi di eventi clamorosi quali il flash crash di Wall Street del 6 maggio 2010 (il Dow Jones, in pochi minuti, crollò di mille punti per recuperarne 700 subito dopo). Tutt’altro: il vero dilemma, sottolineano diversi esperti, è la profonda mutazione genetica hi-tech dei mercati. Qualche esempio può aiutare a capire. Tra i molteplici approcci dei trader algoritmici c’è quello di analizzare, attraverso matematica e statistica, dapprima le serie storiche dei prezzi degli asset. E poi confrontarle con altre variabili (sempre ricondotte a numeri). Si tratta, seppure descritta in modo semplificato, della strategia quantitativa. L’approccio è agli antipodi di quello del trader «fondamentale». Quest’ultimo guarda diversi elementi: dai bilanci aziendali alle variabili congiunturali fino al mercato di riferimento. Inoltre interagisce (se possibile) con il management. In una parola: approfondisce i fondamentali aziendali al fine di calcolare un livello di prezzo del titolo in Borsa. A fronte della sempre maggiore diffusione dell’approccio quantitativo il rischio è che, da una parte, le quotazioni riducano il loro legame con la realtà aziendale; e che, dall’altra, venga a crearsi un mondo autoreferenziale. Un contesto dove il prezzo si forma in base a valori individuati da analisi quantitative trasformate in fondamentali. Senza, però, esserlo.
Ma non è solo questione di autoreferenzialità. Altro tema è l’eccesso di complessità che gli strumenti finanziari, e gli stessi mercati, vanno assumendo. Il tipico esempio è il cosiddetto rischio da black box. Cioè: sistemi altamente complicati, quali ad esempio l’Intelligenza artificiale, possono seguire un iter decisionale incomprensibile agli stessi esperti. In certe condizioni, come ha spiegato a Il Sole 24 Ore Cathy O’Neil, già professoressa di matematica al Barnard College ed ex analista quantitativa nel noto hedge fund D.E.Shaw, l’intero ecosistema, pieno di complicati trading automatici, diventa imprevedibile. Caotico nel significato matematico del termine. Di nuovo l’algoritmo da opportunità può trasformarsi in rischio. Anche sistemico. Che fare, quindi? Le authority di controllo (e non), sia in Europa che negli Stati Uniti, sono più volte intervenute. Sul fronte, ad esempio, dei flash trader Piazza Affari ha adottato un regolamento in cui sono previste delle sanzioni in capo all’intermediario ultra-veloce che supera un determinato livello tra proposte ritirate ed eseguite. La stessa Mifid2, entrata in vigore a inizio 2018, prevede regole più stringenti per gli high-frequency trader. Tuttavia, seppure se non parli poco, il problema resta. Dimenticarlo potrebbe essere fatale.