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 2018  settembre 13 Giovedì calendario

Marco Malvaldi: «Anche i computer rideranno. L’umorismo è una scienza»

Marco Malvaldi, chimico e giallista di successo, quando non racconta le vicende del BarLume (per Sellerio), di solito scrive saggi scientifici. Questa volta – come indica il titolo Per ridere aggiungere acqua (Rizzoli, pagg. 154, euro 18; presentazione a Pordenonelegge sabato 22 settembre, ore 17.30) – si occupa di umorismo.
Come mai?
«Sono sempre stato interessato ai meccanismi attraverso cui gli uomini ridono. Così mi sono chiesto: a che punto è la ricerca scientifica sul tema che cos’è che ci fa ridere?».
A che punto?
«Beh, non certo a conclusioni definitive. In ambito computazionale, per esempio, siamo in grado di insegnare a un computer a riconoscere le facce, ma non una battuta. È notevole, questo».
Perché dovremmo insegnare a un computer a ridere?
«Perché no... Ogni cosa che non riusciamo a insegnare è una cosa che non abbiamo capito. Quando capisce una cosa, l’uomo è in grado di esprimerla in un linguaggio logico formale, privo di ambiguità: il linguaggio della matematica e dell’informatica».
Il linguaggio comune non va bene?
«Il linguaggio naturale non è privo di ambiguità, per cui ci consente tranquillamente di spiegare cose che non abbiamo capito: basta ascoltare i politici o gli economisti. L’unica speranza è insegnare qualcosa all’idiota totale: il computer, che esegue gli ordini impartiti».

Che legame c’è fra intelligenza e risata?
«Un legame profondo. Il ridere nasce dalla percezione, a pelle, di aver sbagliato: dalla discrepanza fra quello che avevamo previsto e quello che succede. Quindi richiede intelligenza».

Si dice anche che ridere troppo sia da stupidi.
«Ma lo stupido in realtà non si accorge di avere sbagliato, o dell’imprevisto; oppure non lo imputa a sé bensì alla sfortuna, ai complotti, alla Terra che è piatta... Per ridere bisogna essere intelligenti. C’è una prova».
Qual è?
«Non ridiamo delle stesse cose nell’arco della nostra vita. Da bambini ci basta sentire una parolaccia; a quarant’anni è più difficile: bisogna che qualcuno freghi la nostra intelligenza in modi più raffinati».
Ma il computer non è solo una macchina per calcolare? Come può ridere?
«Ogni computer è diverso, a seconda di come lo programmiamo. E, come nel computer si possono scindere la capacità di calcolo dalla operazione pratica – tanto è vero che, durante quest’ultima, può andare in crash – e l’hardware dal software, così anche l’umorismo dipende dalla attivazione, nel cervello, di due o tre moduli incompatibili fra loro; per cui il cervello va in crisi».
E questa crisi...
«Si mostra come una risata. Nei nostri processi neurali si crea un cortocircuito: viene processato un segnale incoerente, non logico. La complessità del cervello nasce dal numero di collegamenti e da come si sono sviluppati: si ride per questa capacità di attivare moduli incompatibili; e, per questo, è necessaria una conoscenza pregressa, che si acquisisce vivendo. Altrimenti anche i neonati riderebbero».
Quindi riempiendo il computer di conoscenze potrebbe ridere?
«Più che altro facendo sì che sia in grado di strutturare queste conoscenze. Bisogna non solo dargli tanti libri, giornali e esperienze ma anche i collegamenti: creare delle relazioni, è questo che dobbiamo insegnare al computer».
L’umorismo è un vantaggio nell’evoluzione?
«L’umorismo ha una caratteristica: aumenta se siamo in compagnia, e al sicuro. Sono due aspetti diversi. Il secondo è una specie di debug: ci dice, senza provare dolore fisico, che abbiamo sbagliato e, quindi, dobbiamo stare attenti. È una culata virtuale».
Il primo?
«L’umorismo è un atto profondamente sociale: se siamo in due ad avere commesso lo stesso errore, significa che abbiamo lo stesso problema; e, se entrambi ne ridiamo, c’è anche una sintonia».
L’umorismo nasce dalla attivazione di tre «moduli» nel cervello. Quali?
«Il primo è l’inaspettato, la sorpresa. E questo è facile da insegnare a un computer. Poi c’è l’incompatibilità».
Per esempio?
«Pensiamo alla battuta: I tifosi del Verona inneggiano a Hitler. E fatelo giocare, no?. Si passa all’improvviso dalla categoria politica, anzi crimini contro l’umanità, alla categoria calcio. Categorie che sono incompatibili».
Un computer potrebbe accorgersene?
«Sì, grazie a un archivio di conoscenze, con cui potrebbe creare associazioni come facciamo noi».
L’ultimo modulo?
«È il non mi riguarda. Il più difficile. Non rido per un errore che mette a rischio la mia sopravvivenza. Il bambino ride se un altro scivola sulla buccia di banana, non lui».
Si può attivare?
«Non sappiamo come: servirebbe un computer dotato di quella cosa chiamata coscienza. Dobbiamo tentare di riuscirci, ma non abbiamo la più pallida idea di come fare».
Nemmeno i bambini, da piccoli, ci riescono.
«La consapevolezza del non mi riguarda cresce con la nostra vita: tanto che, a un certo punto, ridere di pancia diventa difficile, perché ogni situazione può essere vista come un dramma».
Come si fa quindi?
«Bisogna separare il reale dal fittizio: è uno dei più grandi poteri dell’essere umano. E non tutti ci riescono».