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 2018  settembre 13 Giovedì calendario

I racconti scapigliati di Aldo Agroppi

Nella sua vita da mediano, tutto grinta e fiato, forse Aldo Agroppi non sospettava di avere un talento da fuoriclasse, quello da scrittore. E non immaginava che un giorno avrebbe partorito un gustosissimo condensato di malinconia, ironia e vis polemica, animato da cuore Toro e intelligenza toscana, come Non so parlare sottovoce. Una vita in contropiede (tra parole e pallone), edito da Cairo (pp. 256, euro 16). Un libro che mette insieme la sua lingua lunga e la sua penna raffinata, testimoniando la sua capacità di scrivere «commenti arguti e divertenti. Commenti così irriverenti che, temo, rendono vana la speranza di rivedere Aldo in panchina», come sostiene il direttore Feltri, che firma la postfazione del libro. Si tratta di un’autobiografia, ma più esattamente è la biografia di un mondo, quello del pallone, che Agroppi conosce bene, avendolo vissuto sul campo, in panchina e da commentatore in tv; una biografia lunga mezzo secolo, a cominciare da quel 15 ottobre 1967 quando Agroppi esordì in serie A con la maglia del Torino. In quella maledetta domenica, che per il centrocampista nato a Piombino segnava la fine della gavetta e l’inizio di una brillante carriera, si spense Gigi Meroni, la farfalla granata, geniale ala destra scomparsa in un incidente stradale. «Io giocai la partita dell’esordio, lui quella dell’addio alla vita», commenta commosso Agroppi, accostando quella tragedia alla strage di Superga. Da lì parte una rassegna, a tratti caricaturale a tratti nostalgica, delle decine di personaggi incontrati da Agroppi nel suo percorso sui campi e a bordocampo: calciatori, ct, presidenti, arbitri, di cui l’allen-autore Aldo firma ritratti memorabili. 

TOSCANACCIO VERACE
Il toscanaccio Agroppi ne ha per tutti, ex compagni di squadra in primis: Ciccio Graziani, che già allora parlava «una via di mezzo tra ostrogoto e ciociaro», dormiva in un albergo pieno di mignotte per risparmiarsi la fatica di prendere in affitto un appartamento; Roberto Poletti, «il Barone, ma senza portafoglio», si presentava agli allenamenti in Jaguar e con l’autista in livrea; il francese Nestor Combin soffriva di flatulenza putrens, e l’unico a poterne sopportare «russate e bombardamenti sottocoperta» era il malcapitato Franco Sattolo. C’erano poi Paolino Pulici che si credeva pilota di aerei, per aver maneggiato una volta dei comandi finti, Angelo Cereser, che lavorava in un’assicurazione e «riusciva a far polizze tra un tempo e l’altro della gara», lo sciupafemmine Lido Vieri che aveva «avuto più donne che gol subiti», e ancora il poeta del gol Claudio Sala detto anche «banana», perché superdotato... Alla penna caustica e divertente di Agroppi non sfuggono neppure vezzi e tic degli allenatori in cui ebbe la fortuna (o sventura) di imbattersi. Ritrae un Ferruccio Valcareggi che lo convocò in Nazionale solo perché era amico del suo babbo; favore che Aldo dovette scontare, offrendo gratis per un mese al figlio del ct una casa all’Elba. Quindi si sofferma su Edmondo Fabbri che, dopo la batosta della fatal Corea, portava solo occhiali neri, forse per vergogna forse per lutto, e sul mitologico Gustavo Giagnoni, che indossava il colbacco anche d’estate.

DELUSIONE RADICE
Ma Agroppi si leva pure qualche sassolino dalle scarpette da calcio, ricordando il comportamento di Gigi Radice, uomo dai «modi arroganti», che lo lasciò andar via dal Torino senza nemmeno una stretta di mano. Altro stile rispetto a quello di un presidente come Romeo Anconetani, patron del Pisa, che si presentava in ritiro con cassette di pesce fresco per caricare la squadra, oppure omaggiava l’allenatore con costosissimi giacconi Missoni, ma allo stesso tempo si prendeva la licenza di convocare giocatori al posto suo, e, da buon seguace di una maga, si abbandonava a riti scaramantici pre-partita, sistemando bottiglie d’acqua senza tappo o piante grasse con aculei puntati verso l’immagine della Madonna negli spogliatoi delle squadre avversarie. Un mondo bellissimo e disperso riaffiora attraverso questi ricordi, che fanno impallidire i simboli del calcio odierno: quei giocatori con «la testa buona solo per portare cappello», come diceva Boskov, o talenti sprecati come Balotelli (piuttosto che averlo in squadra, «meglio un granchio attaccato ai coglioni», tuona Agroppi). Al confronto, scoloriscono anche i tanti (presunti) fenomeni della panchina: quell’Ancelotti, convinto che Zola fosse una sòla, quell’Allegri che preferì Van Bommel a Pirlo, quel Mourinho che credeva di essere «superiore a Dio» ma poi ha smesso di fare miracoli, e tutti quegli allenatori che durante le partite non fanno che prendere appunti (con quella carta bianca potrebbero benissimo «pulirsi il culo», dice Agroppi, citando il Totò de I due colonnelli). Altri tempi e altri personaggi rispetto ai protagonisti di quel mondo antico e amico in cui Agroppi è cresciuto, e a cui torna con la memoria, in un esercizio poetico di nostalgia che gli permette di rivedere la via Pisa dell’infanzia, dove lui ricevette dal papà il primo pallone, quello che avrebbe segnato il suo destino...