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 2018  agosto 18 Sabato calendario

Un motore di ricerca per la Cina? I dipendenti di Google in rivolta

«Il nostro settore è entrato in una nuova era di responsabilità etica: le scelte che facciamo hanno una rilevanza su scala mondiale. Dobbiamo sapere cosa stiamo costruendo. E in questo momento non ne siamo a conoscenza». Il grido arriva da Mountain View, in Silicon Valley, dove i dipendenti di Google hanno chiesto chiarimenti sul lancio in Cina di Dragonfly, una versione del motore di ricerca adattata alla censura digitale di Pechino.
Mille e quattrocento googler – così si chiamano gli impiegati del gigante da più di 760 miliardi di dollari – hanno firmato una lettera, pubblicata dal New York Times, in cui domandano ai vertici «maggiore trasparenza» e la creazione di una struttura di revisione etica del progetto di cui si vocifera da inizio agosto e degli altri in cantiere. Sono stati i siti The Intercept e The Information a rivelare la concreta volontà della grande G di (riprovare a) espugnare Pechino con una app di ricerca delle notizie. Il perché è presto detto: mentre battibecca sui dazi con il presidente Trump, la seconda economia mondiale ha quasi raggiunto quota 800 milioni di utenti Internet. Troppi per non cedere alle richieste del governo di filtraggio delle informazioni?
«Non siamo in procinto di lanciare un motore di ricerca in Cina» ha dichiarato giovedì, durante una riunione interna all’azienda, l’amministratore delegato di Google Sundar Pichai. Il manager si è però detto convinto che «la nostra missione è di organizzare l’informazione del mondo. Se dobbiamo perseguirla bene dobbiamo pensare seriamente a come fare di più in Cina». Il biglietto d’andata, insomma, sembra acquistato, bisogna solo decidere quando staccarlo e attendere l’ok del governo asiatico.
Nella stessa sede, il co-fondatore e presidente della holding Alphabet, Sergey Brin, ha definito l’espansione in Cina «lenta e complicata» e ha riconosciuto la necessità di accettare «una serie di compromessi». Nel 2010, quando aveva un ruolo di maggior rilevo nell’operatività della sua azienda, era stato lui a decidere di dirottare google.cn sulla versione di Hong Kong e non più su Pechino per ragioni etiche. La goccia che aveva fatto traboccare il vaso era stato il presunto hackeraggio governativo delle caselle di posta elettronica Gmail di attivisti cinesi per i diritti umani. «Dovevamo solo fare in modo che nessuno cercasse termini sovversivi, come “democrazia”» ha raccontato online in questi giorni Brandon Downey, ex Google che aveva partecipato al primo tentativo di incursione del motore di ricerca dell’azienda nel mercato cinese. 
Otto anni dopo i dipendenti ricordano a Brin la sua reazione di allora: «In alcuni aspetti della politica (governativa, ndr), in particolare per quanto riguarda la censura e la sorveglianza dei dissidenti, vedo alcuni elementi di totalitarismo» aveva dichiarato battendo la ritirata all’insegna del «Don’t be evil». «Non essere cattivo», il motto dell’epoca di Google. «Pecunia non olet» – anche a scapito dell’etica —, sta diventando quello odierno? In primavera i dipendenti si sono aggrappati all’attuale «Do the right thing», fai la cosa giusta, slogan nato nel 2015 con la fondazione di Alphabet, ottenendo la chiusura di una collaborazione con il Pentagono per l’utilizzo dell’intelligenza artificiale a scopi militari.
La campagna di Cina, intanto, è iniziata: BigG è già attivo con il sistema operativo per smartphone Android (ma non con il negozio di app Google Play) e altri prodotti come Translate. Ha un centro di intelligenza artificiale a Pechino, ha aperto un nuovo ufficio a Shenzhen e ha investito in società come JD.com.
Le partite vere sono però quelle del motore di ricerca, di YouTube e della piattaforma cloud, usata dalle altre aziende per gestire i loro dati e attività. Quest’ultima è importante: macina un miliardo di dollari a trimestre e sta aiutando Mountain View a fatturare senza appoggiarsi solo alla discussa pubblicità online. In Cina, dove Amazon e Microsoft sono già attive in questo senso, Google ne sta parlando con il colosso locale Tencent. Sarà un processo «lento e complicato», per dirla alla Sergey Brin.