Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  agosto 18 Sabato calendario

Corsivi e commenti

Funerale

Corriere della Sera
Con chi ce l’hanno i parenti delle vittime di Genova che sottraggono le bare dei propri cari ai funerali di Stato? In qualche famiglia prevarrà il desiderio comprensibile di preservare l’aspetto privato del dolore anche in una tragedia collettiva. Ma gli altri hanno rifiutato il rito pubblico per incompatibilità ambientale con un Potere che disprezzano e di cui diffidano. Vogliono giustizia e la vogliono subito, perché altrimenti temono di non averla mai. Eppure sarebbe vago e scorretto scrivere che protestano contro lo Stato. Lo Stato sono i vigili del fuoco che hanno scavato tra le macerie con efficienza asburgica e cuore mediterraneo. Sono gli infermieri e i medici della sanità pubblica rientrati spontaneamente dalle vacanze di Ferragosto per dare una mano. Lo Stato è quell’agente della Stradale che con modi gentili ma risoluti (da papà, diremmo, se non lo dicesse già sempre Salvini) ha convinto gli automobilisti a lasciare le macchine sul Ponte per mettersi in salvo. Lo Stato è il suo Capo, la cui sagoma dolente si staglierà stamattina in prima fila, e a cui nessuna di quelle persone straziate ha qualcosa da imputare.
Il bersaglio della rabbia non è dunque lo Stato, ma la politica che si fa dare ordini dalla finanza, ne subisce il fascino e ha perso contatto con la realtà quotidiana dei suoi elettori. La scommessa del governo voluto dagli arrabbiati è tutta qui: salvare la coesione nazionale, impedendo che il Paese si spezzi come quel ponte.

Massimo Gramellini

***

Cemento
il Giornale
Nella fluviale quantità d’interventi violenti, polemici, autocelebrativi delle diverse parti politiche ed istituzionali, sul crollo del ponte di Genova, è assente completamente la riflessione sul tema fondamentale, che è la vera causa della morte dei cittadini che si sono trovati in quel momento nel dramma in atto. La questione essenziale è quella della vita e della morte degli edifici, da cui può derivare il destino degli uomini. La vera tragedia degli ultimi 60-70 anni è la speculazione edilizia di cui sono parte le opere pubbliche, le cosiddette infrastrutture, costruite in cemento armato, che tutti gli ingegneri sanno avere un ciclo di vita che non va oltre i 60-70 anni.
Dobbiamo quindi considerare che il crollo di Genova è solo un avviso, e che il tempo di vita della maggior parte delle nostre infrastrutture è finito. E, dal momento che il cemento armato è stato utilizzato per scuole, condomini, chiese e centri sociali, ognuno di questi edifici è minacciato. Alcuni (si ricordi il cedimento della scuola di San Giuliano in Molise) sono già caduti, e altri, elevati senza garanzie, sono fortemente minacciati. Imminente è il crollo inevitabile (qui eloquentemente documentato) del viadotto autostradale, al ponte zona Stura, sulla Torino-Savona. Domani? Fra un mese? Fra sei? E intanto, che fare? Chiudere l’autostrada? Contingentare il flusso?
La competenza dei tecnici e la dura denuncia del presidente dell’Ordine degli Architetti della provincia di Messina, Nino Falsea, dovrebbero determinare una politica di vasta manutenzione da parte del governo che, ad evidenza, è già in ritardo.
Così come quello del patrimonio culturale, il tema della conservazione degli edifici moderni è stato totalmente assente in tutti i programmi politici dei partiti alle ultime elezioni.
Il caso di Genova impone la manutenzione delle città, anche con interventi radicali di sostituzione edilizia, e di tutte le opere pubbliche e infrastrutturali. Per non trovarci, senza aver fatto nulla per salvarci, sotto un ponte.
Vittorio Sgarbi

***


Manutenzione

Il Foglio 
Com’era auspicabile, la tragedia genovese è stata quantomeno un’occasione perché le nostre intelligenze più brillanti si confrontassero sui mali del paese, sui rimedi possibili e sul futuro prossimo. Il professor Ernesto Galli della Loggia ha espresso le proprie opinioni sul Corriere di ieri. Articolate come sempre, stimolanti come al solito. Troppo pochi i controlli da parte dello stato, ha spiegato il professore: qui ognuno fa quello che gli gira, dall’evasione delle tasse all’attraversamento col rosso, senza che lo stato intervenga, e controlli, e sancisca. Ma una spiegazione c’è: “La crisi di Mani pulite rovesciò bruscamente e definitivamente il rapporto tra Politica e Società assegnando finalmente il primato alla Società”. (In particolare, poi so che è un dettaglio, a me è molto piaciuto quel “finalmente”). Fatto sta che a quel punto la speranza si accese nel cuore del professore. Peccato poi, per via dell’Amor nostro, che quello fosse invece “l’inizio della subordinazione dello Stato e delle sue regole alle necessità tutte privatistiche della società italiana”. Preziosa riflessione. In seguito alla quale non potevi non domandarti per quanti anni, l’illustre professor di questa Loggia, avesse evitato di sottoporre il cervello alla manutenzione ordinaria.
Andrea Marcenaro