Corriere della Sera, 9 agosto 2018
«Caro Verga , scriva di più»
È difficile, nella letteratura italiana, trovare uno scrittore più insoddisfatto e sofferente di Giovanni Verga. Un’anima in pena. Il paradosso è che più o meno in coincidenza con le vette del successo, raggiunte nel gennaio 1884 con l’esordio teatrale al Teatro Carignano di Torino della Cavalleria rusticana, arrivi per lui una fase di profonda crisi creativa, economica ed esistenziale cui poi si aggiungeranno le infinite magagne giudiziarie (la contesa con Mascagni sui diritti dell’opera).
Nel giugno 1883, «stanco di anima e di corpo», Verga era tornato in Sicilia dopo aver lavorato intensamente ai racconti di Per le vie, riuniti in un volume destinato all’editore Treves. A Vizzini cercò di concludere il Mastro-don Gesualdo, proprio mentre nasceva, sotto gli auspici di Giuseppe Giacosa, il progetto di ridurre per il teatro la Cavalleria. La sua vita sentimentale, ormai superati i quaranta, non era semplice: continuava la relazione con Giselda Fojanesi, moglie del poeta Mario Rapisardi finché questi non scoprì una lettera compromettente di Verga e la cacciò di casa; era quello l’anno in cui iniziò per lo scrittore una lunga amicizia con la contessa Paolina Greppi.
Ma dopo l’uscita dei Malavoglia nel 1881 (un «fiasco pieno e completo», come confesserà all’amico Capuana), è la difficoltà a portare avanti il «Ciclo dei vinti» il suo vero tormento, non disgiunto dalle eterne preoccupazioni finanziarie. Per il Mastro-don Gesualdo è già pronto un contratto con l’amico editore torinese Casanova quando Verga, in una lettera del 24 luglio 1883 a Capuana, dichiara fallita la prima stesura: «tutto il Mastro-don Gesualdo già scritto, tre mesi di lavoro, va rifatto di pianta». In realtà, si tratta di un’elaborazione iniziata ben tre anni prima e rimasta allo stato di abbozzo. Nel 1884 quei materiali daranno luogo a una triade di racconti, Vagabondaggio, Come Nanni rimase orfano e Mondo piccino, che verranno dati alle stampe su rivista tra giugno e ottobre: questi tre testi saranno poi fusi in un solo racconto che, con il titolo Vagabondaggio, aprirà una nuova raccolta di novelle eponima.
È particolarmente interessante, avendo accesso al laboratorio dello scrittore grazie all’edizione critica appena uscita, a cura di Matteo Durante (Fondazione Verga-Interlinea), seguire il percorso editoriale di Vagabondaggio, per osservare da una parte quanto Verga sia attento a far fruttare al meglio anche sul piano economico il proprio lavoro, dall’altra quali siano i criteri con cui gli editori agiscono nei confronti di un autore di successo (all’apice del successo) sul finire dell’800: per scoprire che quei criteri, mutatis mutandis, non sono poi così diversi da quelli attuali. Volendo ottimizzare la fase di «crisi espressiva» e la sfiducia seguita al fallimento del primo Mastro, Verga propone all’editore Francesco Casanova, forse a parziale compenso della mancata consegna del romanzo, di pubblicare un suo nuovo libro di racconti già apparsi su riviste letterarie anche molto famose come il «Fanfulla della Domenica». La proposta viene subito respinta con una lettera datata 15 aprile 1885 con le stesse motivazioni cui oggi ricorrerebbe un qualunque medio editore preoccupato di far quadrare i conti: «Io credo che al giorno d’oggi, come il mercato librario è strapazzato dal farabuttismo passato e dalla crisi che tocca a tutti i rami dell’industria ed a tutti i ceti, c’è da stare poco allegri, ed un volume di Novelle Sue state exploités da Giornali letterari di vaglia e letti dalle persone di certa coltura, lo creda non presentano più, per un editore, quella possibilità di felice esito che negli anni passati potevano rappresentare». L’editore-imprenditore aggiunge che «il pubblico grosso è stanco di Poesie e di Novelle» e per questo, con molto dispiacere, è costretto a rifiutare l’offerta. Consiglia piuttosto di rivolgersi a una grande casa editrice come Barbèra, che sarebbe anche l’ideale per rilanciare in ristampa i libri già usciti da Treves, che l’ha lanciato una decina d’anni prima. Verga accoglie il suggerimento e non tarda a scrivere all’editore fiorentino avanzando le stesse proposte fatte a Casanova. La risposta è decisamente più possibilista: «La mia Casa preferirebbe un Romanzo inedito a un volume di Novelle, molto più se già edite in giornali diffusi…».
Quanto alle ristampe, conviene che sia sempre Treves a riproporre i Malavoglia e Il marito di Elena. Si giunge comunque ad approfondire gli aspetti commerciali, viste le onerose pretese di Verga: «Da lei però prenderemmo anche un volume di Novelle, benché già edite e in giornali diffusissimi, ma per arrivare a pagarle ciò che Ella chiede, cioè L. 2.000 per cinque anni, bisognerebbe che il volume raggiungesse almeno la mole del volume che Le mando sottofascia, possibilmente una cinquantina di pagine in più, per arrivare al prezzo di L. 3,50». Calcolando il numero di racconti annunciati dall’autore, le pagine a stampa non andrebbero oltre la metà delle almeno 350 richieste, eppure Verga accetta, impegnandosi a rivedere ampiamente i testi già editi e ad aggiungerne di nuovi.
I racconti di questo periodo, destinati al volume di Barbèra, testimoniano il disorientamento dello scrittore, diviso tra la «febbre» del successo teatrale, che sente anche come un tormento, e la «fede» nell’arte: ma soprattutto Verga avverte la difficoltà di superare il vecchio schema naturalistico e di muoversi verso un nuovo stile. In effetti le dodici novelle che andranno a confluire in Vagabondaggio rappresentano, per molti versi, un cammino sperimentale in direzione del Mastro che verrà ripreso nel 1887. Storie di «personaggi senza radice», vagabondi, illusi, assassini per gelosia, prostitute, fantasmi, strimpellatori di chitarra a pagamento, zitelle, zingari, uomini e donne in fuga dalle fiamme dell’Etna, reduci, contadini avidi e astuti, fannulloni e artisti da strapazzo (quelli che Verga rifuggiva temendo di assumerne le fattezze): un lavoro stilistico e narrativo rivolto in più direzioni, alimentato dall’interesse recente per la scrittura scenica, ma finalizzato al compimento di un romanzo «teatrale» come il Mastro-don Gesualdo. Così lavora uno scrittore, provando e riprovando, attratto e respinto dalla gloria, dal pubblico e dalle sue stesse idiosincrasie, buttando e riciclando, litigando con gli editori, procedendo a tentoni e però sempre superbamente consapevole della propria «fede».
Intanto, i fischi e le stroncature raccolti il 16 maggio 1885 al Teatro Manzoni dal dramma In portineria spingono Verga a lasciare sdegnosamente Milano per andare a «piantar cavoli in Sicilia» pur di non fare il «cortigiano della folla». Il Barbèra, che richiedeva tutto il materiale per stendere un regolare contratto e uscire «in inverno o ai primi di primavera», deve aspettare: Verga riprende il lavoro a fine gennaio 1886 con il desiderio di dare al volume «il sapore di cosa nuova» e «qualche maggior valore di una semplice raccolta». È lo stesso editore, del resto, ad auspicare qualcosa di «più organico» aggiungendo parole che potrebbero valere per i giornalisti-scrittori nel mercato di oggi, centotrent’anni dopo: «Giacché la maggior parte delle raccolte che si fanno ora, riproducendo pari pari, una dopo l’altra, come vengono vengono, cose già pubblicate in giornali, lascino freddo il pubblico che ha ragione di desiderare in ogni volume un organismo più o meno visibile e vigoroso». Verga promette l’invio definitivo per febbraio, ma solo in aprile manda la prima novella riscritta. E però adesso, visto il ritardo, è l’editore a temporeggiare («la pubblicazione è da farsi in autunno, e non c’è bisogno d’affrettarsi»), nonostante le pressioni dell’autore perché si esca subito, a maggio. Pur tuttavia, in dicembre siamo ancora in alto mare: mancano ancora gli ultimi quattro testi e tocca all’editore premere perché arrivino entro i primi di gennaio 1887 e si possano correggere le bozze con calma per uscire in febbraio.
Niente da fare: tre novelle saranno inviate in gennaio, ma ne manca ancora una, la dodicesima, Nanni Volpe, su cui Verga tergiversa per le incertezze sul finale. Non torna ancora la contabilità editoriale, nell’equilibrio tra consistenza del volume, anticipo e prezzo di copertina. Scrive Barbèra: «230 pagine verranno le 11 novelle di cui ho il manoscritto, sicché gioverà il metterne 12 perché il volume arrivi a 250 e possa mettersi L. 3. S’intende che farò una pagina molto leggera, con caratteri grossetti e righe molto spazieggiate; ma con tutto ciò l’originale mandato a 250 pagine non arriva, e per mettere il volume a L. 3 sarebbe bene che non solo si arrivasse, ma si superasse anche di poco». Nanni Volpe verrà composta in tipografia in aprile e a metà mese il libro sarà stampato in 1.500 copie dopo una revisione approssimativa delle bozze: il contratto verrà firmato di lì a poco in seguito a trattative complesse. In giugno, per «spingere» il libro commercialmente, il settimanale illustrato «Il Faro» pubblicherà la nuova stesura di Artisti da strapazzo, come capita ancora oggi con le «anticipazioni» promozionali. Verga avrebbe voluto 2.000 esemplari ottimisticamente prevedendo presto un seconda tiratura. Ma si sbagliava: all’inizio del 1891 rimanevano ancora invendute 750 copie di Vagabondaggio.
Solo dieci anni dopo sarebbe arrivata una «nuova edizione» per i tipi di Treves, il vecchio editore che ora si assumeva l’incarico di riproporre tutte le opere di Verga e che, in uno dei tanti momenti di sfiducia e di rabbia, lo scrittore aveva definito nient’altro che un «minchione».