Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  agosto 09 Giovedì calendario

La banda che rompeva le ossa per truffare le assicurazioni

Raccattavano le vittime negli strati più bassi della società: tossicodipendenti, giovani con problemi psichiatrici, immigrati che vivono di lavoretti. E a loro proponevano di far parte di una truffa dell’orrore alle principali compagnie assicurative, simulando gravi incidenti stradali: 500 euro per una gamba rotta, 300 per il braccio, 1.000 per chi si rompeva tutto con la promessa di un 30% sul premio da centinaia di migliaia di euro che, però, le vittime non ricevevano mai. Ieri la Polizia di Palermo ha deciso di fermare undici persone per associazione a delinquere finalizzata alla truffa, una ricercata. Ma il giro d’affari, ha spiegato il questore Renato Cortese, era molto più ampio.
L’OMBRA DELLA MAFIA
Gli indagati dell’operazione «Tatalo» sono in tutto 60 tra cui l’infermiera Antonia Conte, 51 anni, e l’avvocato Graziano D’Agostino, 42 anni. A capo di ben due organizzazioni parallele, secondo le accuse, c’era Michele Caltabellotta, 43 anni, titolare dello studio di infortunistica Mce, capace di mettere a disposizione tutto, dai testimoni finti al personale sanitario compiacente. Ma le verifiche coordinate dalla procura dicono che nell’affare sarebbe coinvolta anche Cosa nostra: i boss locali, in particolare quelli del mandamento di Brancaccio, come vere e proprie strutture finanziarie, proponevano al gruppo un «derivato». Avrebbero rilevato i debiti con le compagnie assicurative in cambio di un pagamento in tempi rapidi e in contanti.

LA MORTE DI HADRI
L’inchiesta parte, a gennaio del 2017, dalla morte del tunisino Yacoub Hadri. L’immigrato si era prestato al gioco e si era fatto spezzare tibia e perone, ma poi era morto per un arresto cardiaco seguito alle fratture. Un decesso apparso subito sospetto agli investigatori che hanno incaricato un esperto: le fratture non erano compatibili con la modalità dell’incidente che, secondo i testimoni, era stato provocato da uno scontro tra un’auto e lo scooter guidato dalla vittima. Sul cruscotto e a terra, però, solo segni blandi. «Hanno le prove ma... mi hanno fatto vedere la fotografia hanno le prove ma...», diceva uno della banda, Francesco Faija, terrorizzato, avendo capito di essere indagato per la morte di Hadri. Ora è accusato, insieme a due complici, anche di omicidio preterintenzionale. Dopo il decesso i tre contattarono la compagna dell’uomo proponendo, in cambio dell’avvio delle pratiche di risarcimento, il 50% dell’incasso. Alle vittime le due bande promettevano significative quote dei risarcimenti, ma dei soldi garantiti gli invalidi vedevano ben poco. La gestione del sinistro veniva curata dai criminali che dovevano ricostruire la scena del sinistro (a volte piazzando fisicamente i mezzi sui luoghi, a volte attraverso testimoni compiacenti). Nelle intercettazioni il gruppo parla anche della possibilità di «mandare ambulanze» con infermieri giusti sui luoghi dei finti scontri. Ricostruito il falso incidente, le «vittime» venivano portate in luoghi nella disponibilità dei malviventi, per essere affidati alle «cure» dei più violenti e pericolosi che spezzavano loro braccia e gambe. Ai finti incidentati promettevano anestetici, procurati dall’infermiera Conte. I pm, nel provvedimento di fermo, hanno descritto accuratamente quel che avveniva: «Gli arti venivano appoggiati in sospensione tra due blocchi di pietra o cemento e con violenza, sulla parte dell’arto sospesa, veniva gettata una borsa piena di pesi in ghisa o di grosse pietre, in modo da provocare fratture nette, e possibilmente scomposte (perché davano risarcimenti maggiori)». In preda a lancinanti dolori, le vittime venivano trasportate in ospedale e lì entravano in gioco altri membri della banda incaricati di vigilare sui ricoverati per provvedere alle loro necessità, ma soprattutto per evitare denunce. La gestione delle pratiche veniva assunta dai vertici dell’associazione che curavano la presentazione delle richieste di risarcimento e la successiva suddivisione delle «quote».