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 2018  luglio 17 Martedì calendario

In Libia, dove i profughi iniziano la traversata. Tripoli in mano alle quattro milizie

Si è scolorita la scritta Finally we are free, finalmente siamo liberi, tracciata nel 2011 sul lungomare di Tripoli. Risale ai giorni della cacciata di Muhammar el Gheddafi. Sulla via al Shat, parallela alla costa, palazzine nuove e cantieri bloccati si alternano a case con facciate dalla vernice scrostata. Quasi nessun pedone. Su un muro di cinta spicca una toppa in mattoni larga tre metri, sutura di uno sfondamento. Più avanti, due luna park deserti e giostre coperte da veli di sabbia portata dal vento. Panorama spettrale, mentre sulle carreggiate il traffico delle auto si ingolfa.
«Usate medicine salvavita? Dobbiamo sapere di quali avreste bisogno qualora foste feriti e veniste operati», ha domandato poco fa in inglese l’agente di scorta su un’auto blindata. «Dobbiamo saperlo prima di muoverci», aveva aggiunto. Vista da occhi stranieri anche questa è la routine nella Libia che a sette anni dalla guerra non trova autentica pace. Assaggiata nel 2011, la libertà è svanita. Ancora più dei colori vivaci che aveva la scritta.
La capitale del Paese del quale in Italia si parla solo come piattaforma di partenza per migranti e profughi è in mano a quattro milizie. Sono queste i veri poteri più che il governo di accordo nazionale guidato da Fayez Mustafa al Sarraj, l’unico riconosciuto dalla comunità internazionale. Dal 2017 le milizie hanno sulle istituzioni un controllo senza precedenti.
Uno dei vice del presidente del Consiglio nazionale al Sarraj, Fathi al Majbari, di recente, ha diffuso una dichiarazione. Insoddisfatto della ripartizione dei proventi del greggio, il generale Khalifa Haftar aveva sottratto alla National Oil Corporation il controllo di pozzi petroliferi per affidarlo a una struttura parallela dell’Est della Libia. Al Majbari aveva approvato la scelta. Il 26 giugno, stando a una fonte a lui vicina, gli è stata assaltata la casa. Stava per essere rapito. È fuggito.
Non che Haftar sia buono. Il generale appoggiato da Egitto e Russia che domina la Cirenaica impiega metodi brutali. E il suo blocco di alcuni pozzi, terminato in seguito a pressioni di Stati Uniti, Francia e Italia, aveva ridotto di oltre la metà la produzione libica di greggio che era in febbraio di un milione e 280 mila barili al giorno.
A Tripoli se un ordine si rintraccia è nella struttura verticale delle milizie, simile più a quella della mafia che alla rete orizzontale della camorra. Ogni fazione ha ambiti di supremazia, ma i perimetri delle rispettive influenze oscillano. Appena collidono, cortocircuito. Scatta una sparatoria. Prevedere quando accade è difficile.
La «Rada» o «Sdf» – Special deterrence force, Forza speciale di deterrenza – è guidata da Abdeurrauf Kara e cacciò gli uomini di Haftar nel 2014. La «Trb» – la Tripoli revolutionaries brigade di Haitham al Tajuri – ha in mano la Polizia diplomatica che si occupa delle ambasciate, tra le quali la italiana è la sola dell’Unione Europea in funzione. La Nawasi brigade – salafita – è collegata a Kara e controlla tra l’altro la base della Libyan coast guard, la Marina. La Abdul Salim unit dell’Apparato di sicurezza centrale – detta anche «al Kikli», dal comandante Abdelghani al Kikli – è forte nell’area di Abu Salim. Un decreto, il 555 del Consiglio presidenziale, ha potenziato la Sdf riconoscendole un ruolo anti-terrorismo. Dettaglio: a dirigerla è un uomo accusato di violazione dei diritti umani.
Tra le principali fonti di introiti dei gruppi in armi rientrano la speculazione sul dinaro, la moneta locale, e il pizzo. La prima viene compiuta così: emissari delle milizie ottengono lettere di credito per importare beni, ricevono euro o dollari al cambio ufficiale e invece di spenderli li vendono al mercato nero. In porto arrivano container vuoti. Servono a far finta che si sia importato qualcosa.
Il pizzo si avvale della crisi di liquidità. Davanti ad alcune banche o simil-banche si creano file. Un miliziano si fa intestare un assegno da una persona in attesa. Poi entra, ritira una somma x di danaro e a chi ha emesso l’assegno ne dà x meno y. Protestare sarebbe più caro.
Ai giornalisti stranieri occorre un’autorizzazione anche per intervistare passanti. Da quando nel 2017 la Cnn ha mostrato schiavi venduti all’asta, i potentati giudicano gli inviati presenze ostili. È in questa atmosfera che le esortazioni provenienti dall’estero a istituire in Libia centri per filtrare quanti chiedono asilo in Europa sono percepite come mire inquietanti. Tra i libici, oltre sei milioni di abitanti, c’è chi teme che i migranti arrivino dal Sud spinti da un piano volto ad alterare la demografia del Paese. Passi dei quali da noi non si calcolano gli effetti aumentano le difficoltà per le organizzazioni internazionali che l’Italia ha contribuito dieci mesi fa a far agire a Tripoli.
Più che un aumento dei fondi, alla Libia serve stabilizzazione. Sarraj non controlla quasi niente fuori dalla capitale. E oggi i finanziamenti non rafforzano necessariamente autorità centrali, bensì fazioni. Il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, a Tripoli, ha detto: «È necessario raddoppiare gli sforzi per ripristinare un’efficace unità nazionale. Per garantire la stabilità necessaria allo sviluppo». È così. Se l’anarco-oligarchia fosse sostituita da vere autorità centrali, l’economia crescerebbe. Con la ricostruzione, ai migranti dal Sud non interesserebbe solo l’Europa. La prima da costruire, però, è una pace.