Corriere della Sera, 16 luglio 2018
Callegari e Cravero: l’importanza dei silenzi nelle telecronache
Mediaset ha vinto la sua scommessa sui Mondiali di calcio. Ma c’è un altro aspetto su cui la Rai dovrebbe meditare. A parte la scivolata di Balalaika (non a caso è un format «rubacchiato» alla Rai), i servizi sportivi sono risultati molto efficaci. È vero che Mediaset ha alle spalle l’esperienza di Premium, ma la nuova Rai dovrà convincersi che, almeno in campo sportivo, Sky e Mediaset sono altra cosa.
Inutile piagnucolare sul fatto che la gente ha il diritto (l’antico diritto del servizio pubblico) di vedere i gol, se poi non si è all’altezza. E le telecronache? Personalmente ho molto apprezzato le narrazioni di Massimo Callegari e Roberto Cravero. Paradossalmente, per i loro non infrequenti silenzi. Cerco di spiegarmi: la storia italiana delle telecronache ha vissuto tre momenti topici: la fase istituzionale (Martellini, Pizzul) dove bastava fare radiocronaca; la fase di rottura: è stato Sandro Piccinini a inventarsi un gergo e soprattutto una partecipazione emotiva; la fase iper-personalizzata: a cominciare da Fabio Caressa, il racconto è diventato più importante dell’evento.
E ora non sono pochi gli spettatori che preferiscono il sonoro ambientale, senza telecronaca. Perché Callegari e Cravero? Non erano meglio Piccinini e Antonio Di Gennaro o Pierluigi Pardo e Aldo Serena? Questioni di gusti, dirà qualcuno. Premesso che i tre ex calciatori sono stati molto puntuali, competenti e poco invadenti, posso dire che Piccinini è rimasto se stesso (giusto premiare l’autorevolezza con la finale) e Pardo è troppo gigione (peccato, perché dei tre è quello che ha il vocabolario e il background più ricchi).
Calegari e Cravero hanno avuto il merito della moderazione, di non sovrapporsi mai a quello che succedeva in campo, di ritmare la cronaca con opportuni silenzi (non mi stancherò mai di ripeterlo: i telecronisti hanno paura del silenzio). Hanno agito per sottrazione e sono stati bravi.