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 2018  luglio 16 Lunedì calendario

Lisbona, il fisco e noi

Una delle libertà dell’Europa e fra italiani e portoghesi abbiamo deciso di approfittarne. Ci scambiamo persone. La contabilità degli ultimi eventi dice che lo stiamo facendo al ritmo di 4.300 a una. Ieri è atterrato a Torino il portoghese più celebre, Cristiano Ronaldo: grazie a una misura introdotta dal passato governo, pagherà 100 mila euro di tasse l’anno sui 50 milioni di diritti che guadagna dalle società ai Caraibi che trattano i suoi diritti d’immagine. 
Intanto nei giorni scorsi il «Servizio degli stranieri e delle frontiere» di Lisbona ha fatto sapere che nel 2017 l’afflusso di italiani in Portogallo ha registrato un aumento più rapido di quello di qualunque altra nazionalità. Quei 4.300 italiani arrivati l’anno passato (una crescita del 50% sul 2016) sono andati a rafforzare le fila di una comunità che si sta espandendo sempre più in fretta. I nostri connazionali nel Paese erano poche centinaia qualche anno fa, sono 13 mila oggi. 
È attraverso questi fenomeni che le migrazioni interagiscono con la chimica della ripresa, o la sua assenza. Non che se ne parli troppo in Europa, anzi. Fin qui il dibattito nell’area euro si è concentrato quasi solo sul concetto di «competitività»: il mettersi in grado di produrre certi beni e servizi a prezzi tali che, data la loro qualità, si trovino compratori. Però se la qualità di una parte importante dei prodotti di un Paese è replicabile altrove a costi minori, occorre una compressione dei salari e un rischio di deflazione che minaccia la sostenibilità dei debiti pubblici e privati. 
Assente dalle discussioni è rimasta invece l’idea della «densità» che invece i portoghesi hanno colto. Perché un Paese prosperi entro i vincoli di una banca centrale che non può tener conto solo delle sue esigenze e con un bilancio pubblico rigido, serve materia prima: le persone. Bisogna attrarre il tipo di popolazione che permetta a una società di funzionare dopo una crisi: donne e uomini in grado di produrre molto valore con il loro lavoro; abitanti con potere d’acquisto, che tengano vivo il sistema dei servizi; residenti ricchi o semplicemente anziani che comprino case. È anche grazie a questi ultimi che il valore degli immobili sale malgrado il declino demografico; ma poiché a quel punto migliorano anche i bilanci delle banche che hanno immobili in garanzia, l’accesso di famiglie e imprese al credito diventa più facile. La densità innesca spirali positive, la sua carenza l’opposto. 
Questa è una differenza fra Ronaldo e quei 4.300 italiani, e fra Italia e Portogallo. Perché gli sgravi italiani attraggono poco più di cento ricchissimi come l’attaccante, quelli lusitani decine di migliaia di donne e uomini del ceto medio. Eppure i due Paesi hanno storie, per certi aspetti, parallele: entrambi emergono dalla loro recessione più grave con un debito pubblico da poco arrivato attorno al 130% del Pil. Per entrambi la crescita è stata sempre sotto la media dell’area euro. Entrambi vivono un declino demografico profondo, con popolazione in calo: sono fra gli ultimi in Europa per la quota di abitanti sotto i 15 anni, al vertice per la quota sopra ai 65 anni, entrambi hanno visto emigrare centinaia di migliaia di giovani e in entrambi le nascite sono ai minimi europei di 1,3 figli per donna. Tutti e due hanno anche visto arrivare al potere partiti «anti-sistema». A Lisbona il presidente Anibal Cavaco Silva nel 2015 fece promettere al socialista Antonio Costa, prima di permettere il suo governo con i comunisti, che sarebbe rimasto nella Ue. A Roma, il ruolo del Quirinale è noto. 
La differenza è che il Portogallo ha reagito. Ha fatto leva sulla natura aperta dello spazio europeo e, a giudicare dalla forza della ripresa, funziona. Precedenti governi, socialisti e conservatori, avevano già assunto i migliori tributaristi di Lisbona per disegnare sgravi fiscali volti ad attrarre quegli stranieri che servono al Paese per ricostituire la propria densità. La più nota è la parte del regime «per i residenti non-abituali» rivolta di fatto ai pensionati europei del ceto medio. Si pagano zero imposte sui redditi maturati all’estero purché gli interessati trasferiscano la loro residenza in Portogallo; la sola condizione è vivere sei mesi l’anno nel Paese o disporre di una casa «che permetta di presumere l’intenzione di tenerla e occuparla come residenza abituale». Insomma basta comprare o affittare metri quadri in modo credibile. I francesi «residenti» nel 2017 sono saliti del 35% a 15 mila, i britannici del 15%. 
Per i «residenti non-abituali» c’è poi una flat tax al 20% sui redditi maturati in Portogallo in una cinquantina di categorie di lavoratori della conoscenza: esperti di software, cantanti, chirurghi, universitari, esperti di finanza, top manager. Questo sgravio ha trasformato il quartiere di Lisbona nato con Expo 1998 in un distretto tecnologico, non solo per startup: Microsoft, Apple, la sudafricana Naspers, le banche francesi Bnp Paribas o Natixis, il gruppo Usa Vestra e vari altri attraggono in riva al Tago neo-laureati da tutta Europa in periferie pochi anni fa desolate, oggi percorse da un’atmosfera elettrica. Le mancate entrate fiscali legate a tutti questi sgravi valevano 111 milioni nel 2014 e già quattro volte di più l’anno scorso. In proporzione farebbero 3,7 miliardi per l’Italia, ma si tratta comunque di risorse di nuovi residenti in più: non danneggiano il deficit. Né lo danneggia il programma di visti permanenti in Portogallo (dunque nella Ue) a non residenti da Paesi terzi come Cina, Russia, Sudafrica o Brasile: basta acquistare un immobile da mezzo milione, o depositare un milione in una banca lusitana per cinque anni, oppure creare dieci posti di lavoro. Questo schema in sei anni ha già generato 16 mila visti e investimenti dall’estero pari al 2% del Pil. 
Così il Portogallo a guida «anti-sistema» ha fatto dell’immigrazione un’arma – certo, non la sola – per tornare a crescere a un ritmo quasi doppio rispetto all’Italia. E chissà che da Roma qualcuno non decida di alzare lo sguardo e pensarci un po’ su.