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 2018  giugno 13 Mercoledì calendario

La Spoon River di Dino Buzzati

L’agenda, tenuta insieme da uno scotch rosso, è nera, targata Olivetti, con i disegni di Pierre Alechinsky. È del 1970, ma Dino Buzzati la portò con sé per due anni, sicuramente dal gennaio 1970 al 19 dicembre 1971, quando, già ricoverato in ospedale per il tumore al pancreas che avrebbe messo fine alla sua vita poco più di un mese dopo, a 65 anni, scrisse con una grafia più incerta e spigolosa un’altra pagina del libro cui stava lavorando: Il reggimento parte all’alba. Quell’agenda non contiene annotazioni personali, appunti di vita quotidiana; non è uno dei suoi diari che fin da giovane Buzzati era abituato a tenere. È invece interamente dedicata al manoscritto dell’ultimo libro, quello che non farà in tempo a finire e sarà pubblicato postumo. E che ora, a oltre trent’anni dalla sua prima uscita, torna in una nuova edizione per i tipi Henry Beyle, rivista e riordinata attraverso uno scrupoloso riscontro con le pagine autografe e arricchita di immagini e pezzi inediti. Il privilegio personale di poter avere in mano quell’agenda, scoprendo il metodo di lavoro dell’autore, i suoi dubbi, i ripensamenti, e la forte emozione di sfogliare le ultime pagine della sua vita, se da un lato hanno suscitato in me un senso di imbarazzo e di disagio per essere entrato nel privato dello scrittore, soprattutto in quei mesi segnati dalla malattia, dall’altro mi hanno permesso di rendere questa edizione il più vicina possibile a quella che – probabilmente – Buzzati avrebbe voluto pubblicare. L’eliminazione di racconti presi da altri quaderni e non legati al tema e l’inserimento di nuovi brani – racconti brevissimi, appunti da sviluppare, riflessioni – restituisce a questo volume l’importanza che aveva per Buzzati al momento della scrittura e che forse, come capita a volte con i libri postumi, non è mai emersa appieno, rimanendo relegato ai margini della sua produzione letteraria. 
Perché Il reggimento parte all’alba, titolo che Dino Buzzati scrive da destra a sinistra come faceva fin da bambino per proteggere appunti e riflessioni riservate, e che forse prevedeva un sottotitolo da scegliere tra L’ultima volta e La morte borghese, è il capitolo finale di una vita in cui la morte è stata una presenza costante, «un pensiero fisso fin dalla gioventù, probabilmente dall’infanzia», disse Goffredo Parise, «e che si ritrova in tutti i suoi scritti». Una compagna che in queste pagine Buzzati guarda in faccia come mai aveva fatto prima. 
Per farlo – e per raccontarsi – si serve una volta ancora di una metafora militare: il reggimento. «È poi chiaro come il sole che tutta questa faccenda del reggimento che parte è una buffonata letteraria e che partenza significa semplicemente la morte», appunta in una pagina dell’agenda, quasi a volere impietosamente svelare a se stesso il proprio gioco letterario. Che però non è un gioco né tantomeno una buffonata. È un libro in presa diretta, illuminante e doloroso, che diventa una resa dei conti perché mostra l’ultimo Buzzati e attraverso di lui la parte più fragile e contraddittoria dell’uomo. Dopo aver sottolineato la certezza e l’universalità della fine cui siamo destinati, ricordando che essa riguarda ciascuno di noi e non prevede disertori, Buzzati costruisce la propria Spoon River. Ma a differenza di Edgar Lee Masters qui l’autore non racconta (soltanto) la vita o la morte di coloro che sono finiti sulla collina, quanto il preciso momento in cui hanno saputo di essere condannati e di dover morire, l’istante esatto in cui hanno ricevuto la «chiamata», come e da chi. Ed essendo Buzzati stesso uno di loro, egli può sviscerare e confessare ciò che si prova quando si viene a sapere che la propria esistenza è arrivata al termine. 
Dino Buzzati non racconta più l’Aldilà che spesso, da sano, aveva immaginato, come nel Poema a fumetti, ma mostra i pensieri e le emozioni che nell’Aldiqua attraversano il condannato a morte, che lo agitano nell’estrema attesa, altro tema a lui caro. Ne indaga e ne analizza i sentimenti, le nuove priorità, il rapporto con gli altri e con il mondo, il cambio di valori, i rimorsi; sperimenta e mette a fuoco la condizione di morto vivente, di uomo che, anche se cammina, se ancora respira, non appartiene già più a questo mondo. E attraverso i vari personaggi che compongono la sua Spoon River, Buzzati dà sfogo ai diversi stati d’animo che lo attraversano: la paura, la rabbia, la solitudine, la rassegnazione, l’invidia, il coraggio, fino alla pace finale, anche se ancora piena di interrogativi. 
C’è qualcosa di Buzzati in ciascuno dei personaggi ritratti. Come se ognuno di loro fosse uno dei diversi uomini che abitano in lui. Come se la partenza imminente diventasse una lente attraverso la quale rivedere tutta la propria vita. Ma soprattutto c’è, in questo libro, il Dino Buzzati a tu per tu con la morte per L’ultima volta, sia come uomo che come scrittore. C’è La morte borghese, anzi la morte di «un» borghese che fino alla fine ha saputo guardare negli occhi l’avversaria di una vita, spogliandola di tutte le sue maschere, sfidandola anche, nonostante sapesse da sempre chi avrebbe vinto.