Il Sole 24 Ore, 12 giugno 2018
Da alleato a «traditore»: la metamorfosi di Trudeau
Peter Navarro, profeta delle offensive commerciali della Casa Bianca, ha promesso a quelli come lui uno «speciale posto all’inferno». Quelli come lui sarebbero i «traditori», secondo l’altro consigliere Larry Kudlow. Justin Trudeau, il premier del Canada, ha attirato ire senza precedenti, diventando da stretto alleato nemico pubblico numero uno. Colpevole d’aver riaffermato in pubblico, al G7, l’opposizione a dazi unilaterali Usa contro nazioni amiche per controverse ragioni di «sicurezza nazionale”». Ma se è difficile riconoscere il moderato e cortese Trudeau nei ritratti dipinti dalla Casa Bianca, lo scontro esploso ha sancito una svolta: l’improvvisa trasformazione, sotto i riflettori, d’un premier noto per una leadership basata sullo “charme” – personale e politico – in combattente e rivale scomodo per la Casa Bianca, paladino del multilateralismo contro America First.
Una trasformazione, in realtà, non casuale. Il 47enne Trudeau fa leva su uno spirito battagliero e su un acume che ancora non l’hanno tradito. Figlio dell’ex premier Pierre, nel 2015 ha trascinato a sorpresa alla vittoria i Liberali oggi al potere, coltivando un’immagine progressista. E nel 2016 ha sancito più strette relazioni transatlantiche attraverso l’accordo di libero scambio Ceta con la Ue, raro esempio recente di free trade.
Trump inoltre non è il solo a poter giocare la carta di politica interna. I “suoi” Stati Uniti sono impopolari in Canada e Trudeau ha appuntamenti con le urne l’anno prossimo. Ma il premier di Ottawa è stato spinto sul ring soprattutto da mutate necessità strategiche: ha provato senza esito, più di altri alleati, strade concilianti per trattare con Trump. Seppur vicino a Barack Obama, ha lavorato assiduamente per far breccia nella neo-amministrazione repubblicana. Un compito cruciale per tutti: l’interscambio in gioco, 674 miliardi complessivi nel 2017, ne fa il secondo partner Usa. Ha arruolato al suo fianco l’ex premier conservatore Brian Mulroney, che conosce Trump dagli anni da immobiliarista e con Ronald Reagan inaugurò intese commerciali poi maturate nel Nafta. Ha creato uno speciale team agli ordini del pragmatico ministro degli Esteri Chrystia Freeland per promuovere contatti oltreconfine. È stata una straordinaria missione di soft power per sottolineare gli storici rapporti tra i due Paesi. Le guerre combattute insieme, il fatto che il Canada è il primo mercato per l’export Usa e che il deficit bilaterale statunitense in merci diventa surplus con i servizi. L’intreccio inestricabile di catene produttive che attraversano il confine. La verità che i latticini canadesi denunciati da Trump perché troppo protetti sono lo 0,2% degli scambi mentre gli Usa vantano forti attivi in agricoltura. Questi sforzi di Trudeau si sono arrestati davanti a un muro di intransigenza, imprevedibilità e tweet. E l’unica strada potrebbe essere un linguaggio più duro. Forse, si augura Ottawa, più comprensibile alla Casa Bianca. Qualche segno incoraggiante? Ieri il ministro Usa dell’Agricoltura Sonny Perdue ha programmato una visita e il rappresentante commerciale Lighthizer ha telefonato a Chrystia Freeland.