Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  maggio 16 Mercoledì calendario

In morte di Salvatore Ligresti

Sergio Bocconi sul Corriere della Sera
Salvatore Ligresti è morto ieri al San Raffaele di Milano. Aveva 86 anni ed era malato da tempo. È stato uno dei protagonisti della finanza e del settore immobiliare milanese soprattutto negli anni in cui «regnava» Bettino Craxi, a cui era molto legato. Gli ultimi anni hanno però visto il suo tramonto definitivo con la perdita di Fonsai, la compagnia assicurativa che aveva utilizzato come serbatoio di liquidità e strumento di operazioni «familiari», passata quando ormai era al crac al gruppo Unipol.
Protagonista, sia nel periodo di Tangentopoli sia negli ultimi anni, di numerose vicende giudiziarie, nel periodo d’oro era conosciuto come mister 5% perché aveva collezionato numerose partecipazioni in società quotate di Piazza Affari. Tutto è cominciato con il suo arrivo a Milano da Paternò.
Nella sola intervista che ha rilasciato (era un assoluto fedele alle regole del silenzio e dell’understatement, tanto è vero che quando, nel 1981, sua moglie viene rapita e poi rilasciata, i giornali non riportano il suo nome ma parlano genericamente di un immobiliarista) a «Il Mondo» ha raccontato che la sua carriera è cominciata da un sopralzo a Milano. Ingegnere, nel capoluogo milanese ha progettato e costruito nel centro cittadino vicino a San Babila alcune delle sue prime opere (fra cui un garage) di cui andava fiero. E con una fortuna costruita fra acquisti e vendite immobiliari, diventa negli anni Ottanta di «re del mattone» e appunto «Mister 5%» per il network di partecipazioni che ha accumulato.
Frequenta Enrico Cuccia, il fondatore di Mediobanca, e ha un ruolo nel processo di privatizzazione della banca d’affari grazie al suo rapporto con i socialisti di Craxi. Mani Pulite ferma però la sua ascesa con 112 giorni trascorsi a San Vittore in una cella che ha condiviso con un altro giovane detenuto. Il lungo periodo di carcere è dovuto al suo lungo silenzio.
Ligresti però non si arrende e si risolleva una volta concluso il periodo più nero. E nel luglio 2001 fa il grande salto, rilevando Fondiaria dalla Montedison sotto assedio in una travagliata operazione. Nel gennaio 2003, quando Fonsai approda in Borsa, vale 1,6 miliardi. A fine 2006 ne capitalizza 5. Poi l’ingegnere e i figli affondano la compagnia in una spirale di operazioni con parti correlate e occultamenti vari. Risultato: 2 miliardi di perdite nel 2011 e 2012.
Il salvataggio con ricapitalizzazione da parte di Unipol, seguito da Mediobanca, evita il fallimento che sarebbe stato un vero colpo per l’intera finanza italiana. Il crac è invece inevitabile per le holding personali di Ligresti e dei suoi figli, Paolo, Jonella e Giulia, che controllano Fonsai attraverso la capogruppo Premafin. Si rivelano così pacchetti di azioni offshore e una gestione molto personale di una società quotata in Borsa usata come bancomat per le spese (ingenti) di tutta la famiglia, con consulenze e sponsorizzazioni pagate a peso d’oro da Fonsai, che paga anche notevoli compensi non solo ai Ligresti, ma a tutti coloro, e non sono pochi, che fanno parte come advisor, consiglieri e manager, della corte di Salvatore.
Le risorse vengono raccolte per lo più attraverso una fitta rete di operazioni immobiliari con parti correlate (cioè le società della famiglia Ligresti) che vedono spogliare la compagnia di assicurazioni.
Le procure di Torino e Milano indagano. I reati ipotizzati sono svariati, dal falso in bilancio all’infedeltà patrimoniale. Alla fine si passa agli arresti, che a Salvatore, considerata l’età, sono risparmiati. Ma è davvero l’epilogo di un «impero» che crolla sotto il peso di una gestione personale che non si è posta limiti.

Vittoria Puledda su Repubblica
milano Si è spento in una clinica milanese, a 86 anni. Ma già da qualche anno Salvatore Ligresti, nato a Paternò e una vita a Milano, era uscito di scena. Travolto dagli scandali e dalle condanne per la “sua” Fondiaria, spogliata dalla gestione della famiglia e con un buco nelle riserve tecniche di svariati centinaia di milioni di euro; annichilito, racconta chi lo vedeva ancora, dalla fine rovinosa del suo impero. E con un fardello di due condanne: a 6 anni per falso in bilancio e manipolazione del mercato per Fonsai a Torino e a 5 anni per aggiotaggio in relazione alla vicenda Premafin, società di cui era stato presidente onorario. Per lunghi decenni, però, Don Salvatore era stato uno dei simboli della Milano da bere, artefice dello sviluppo immobiliare della città – e dei suoi mostri di cemento – delle relazioni con i potenti dell’epoca. Grazie ad una fittissima rete di conoscenze politiche, assiduo alla corte di re Bettino Craxi, sostenuto da Enrico Cuccia. Finanziato dalla Banca Commerciale, come aveva più volte raccontato, per quello che considerava il primo vero affare, un sopralzo in via Savona, in zona Porta Genova. Erano i primi anni Sessanta, la storia era ancora tutta da scrivere. Con il tempo Don Salvatore si guadagna sul campo il titolo di “Mister 5%”: metteva insieme pacchetti nei più importanti gruppi del’epoca, da Pirelli a Gemina, da Mediobanca alla Sai. Partecipando a quel capitalismo di relazione che negli Anni Ottanta garantiva il controllo incrociato delle società e la stabilità dell’azionariato. Anche la protezione e i favori, quando servivano: quando si trattò di mettere in sicurezza Fondiaria, travolta dai problemi del gruppo Ferruzzi-Montedison, Cuccia trovò la soluzione in una notte: affidarla a Don Salvatore, che nel ramo assicurativo aveva già la Sai ( anche se la strada futura è stata molto accidentata). Del resto il suo non è mai stato un percorso lineare, negli affari come nelle aule di giustizia. Nel ‘92 fu arrestato nell’ambito degli scandali di Tangentopoli, accusato di corruzione per l’aggiudicazione degli appalti per la costruzione della Metropolitana di Milano e delle Ferrovie Nord. Trascorse 112 giorni in carcere, senza dire una parola. Fu condannato e nel ‘ 97 perse i requisiti di onorabilità, il che lo costrinse a cedere ai figli le cariche operative nelle società controllate, a partire dalla Premafin. La holding controllava l’impero assicurativo, sopra c’erano le due finanziarie Imco e Sinergia, per gli affari personali ( anche se Ligresti non ha fatto mai molta distinzione tra i due aspetti) e per le operazioni immobiliari. E da lì è partita l’ultima, rovinosa stagione del siciliano di Paternò: fallimenti delle società a monte, accuse di aggiotaggio in relazione ai due trust che controllavano dai paradisi fiscali il 20% di Premafin; infine, il disastro di Sai-Fondiaria. All’inizio degli anni 2010 il gruppo sbanda vistosamente. L’intervento di Vincent Bolloré e di Groupama viene fermato alla prospettiva di dover lanciare un’Opa a cascata. Sarà poi l’Unipol guidata da Carlo Cimbri a subentrando nelle assicurazioni, ricapitalizzandole. La fine, per Don Salvatore, fu decretata proprio da Mediobanca. I tempi erano cambiati.
Gianluca Paolucci sulla Stampa
La parabola di Salvatore Ligresti, spentosi ieri a 86 anni, non ha eguali nella finanza e imprenditoria italiana. Partito da Paternò, in provinc ia di Catania, ha costruito mezza Milano, è stato padrone assoluto del secondo gruppo assicurativo del Paese, ha fatto parte di consigli d’amministrazione e patti di sindacato blasonati per poi finire in disgrazia, spossessato di beni e proprietà, pacchetti azionari e amicizie importanti. Riconoscenza e gratitudine, anche, dei molti che hanno beneficiato del suo potere e della sua ricchezza. In tutto questo suo percorso, non ha mai perso una serie di caratteristiche che ne hanno fatto un personaggio unico nel panorama finanziario.
Il riserbo
Il riserbo assoluto con i giornalisti, con i quali parlava poco e di malavoglia, alimentando di fatto tutta una serie di miti e leggende sul suo conto. Contrapposta alla simpatia e affabilità che mostrava nel privato, con le controparti di affari importanti o con semplici interlocutori occasionali. Il suo fortissimo, quasi caricaturale accento meridionale. La storia che più di tutte colpisce la fantasia dei lettori, quando si parla di Salvatore Ligresti, risale al 1981. La moglie venne rapita e rilasciata dopo che Don Salvatore pagò un riscatto di seicento milioni di lire. Due dei tre rapitori vennero trovati morti, in circostanze che sembravano studiate apposta per far nascere miti e leggende.
Arriva a Milano dalla Sicilia, laureato in Ingegneria. La sua capacità di tessere relazioni gli sarà utilissima nei primi affari, unita a una certa fortuna. Come un incontro fortuito con Enrico Cuccia che – si racconta – colpito dall’intraprendenza del suo conterraneo lo invitò in Mediobanca, che diventerà poi la banca di riferimento dell’ingegnere di Paternò.
L’onda di Tangentopoli, a lui che aveva costruito un pezzo di Milano anche grazie alla benevolenza delle giunte cittadine, lo colpisce in pieno. Nel 1992 finisce in carcere per gli appalti della metropolitana e nel 1997 venne condannato in via definitiva. Da sempre legato alla galassia Mediobanca, aveva partecipazioni in Rcs e Capitalia, poi in Unicredit dopo la fusione con la banca romana. La cassaforte di famiglia era però la Fondiaria-Sai. Due compagnia assicurative «consegnate» a Ligresti ancora da Mediobanca. La Fondiaria con una operazione che ha destato fin troppi sospetti, confermati da evidenze arrivate troppo tardi sulle modalità dell’acquisizione.
Il castello crolla nel 2011, quando crolla sotto il peso dei debiti anche Fondiaria-Sai. Ligresti lascia le cariche, le poltrone nei salotti e si ritira a vita privata. Non prima di aver lanciato i suoi strali contro Mediobanca, con la vicenda del famigerato «papello» che doveva garantire almeno una parte dei suoi beni. L’ultima condanna in primo grado a cinque anni arriva nel novembre 2017 per la vicenda Premafin. Il ricordo del carcere conosciuto ai tempi di Tangentopoli diventerà una narrazione in questo ultimo periodo.

Alessandro Graziani sul Sole 24 Ore del 17 maggio 2018
Chi lo conosceva bene, come Ignazio La Russa, dice che Salvatore Ligresti - scomparso due giorni fa a 86 anni - ha iniziato a morire quando ha perso le aziende. Ed è certamente vero perchè, per tutti quelli che lo hanno conosciuto da vicino, per l’Ingegnere siciliano le aziende controllate non hanno rappresentato solo un business ma hanno coinciso con gli interessi della famiglia, degli «amici» e degli alleati politici e finanziari. 
Amici e avversari concordano nel dire che per Ligresti le aziende erano considerate «la roba», nell’accezione dello scrittore siciliano Giovanni Verga. Tanto che, a chi gli faceva notare che il gruppo Ligresti necessitava di una governance più adeguata e aperta al mercato, come provò a fare Enrico Bondi nel breve periodo di “commissariamento amichevole” della Premafin, Ligresti usava rispondere che la governance era già ben rappresentata da lui e dai suoi familiari, a partire dalle amatissime figlie Jonella e Giulia. 
La verità invece è che Ligresti non è mai stato padrone delle proprie aziende come, forse, avrebbe voluto. Pur comportandosi da padre-padrone, secondo schemi finanziari di metà novecento, il controllo prima di Grassetto, di Sai e poi di Impregilo e di FondiariaSai è sempre stato esercitato attraverso una serie di scatole cinesi, composto da una finanziaria capogruppo con varie catene di subholding quotate e non, che gli è stato concesso dal rapporto privilegiato con Enrico Cuccia, siciliano come Ligresti e leader indiscusso della vecchia Mediobanca. Un controllo esercitato attraverso una serie di patti di sindacato azionari, attraverso cui la vecchia Mediobanca ha garantito per quasi quarant’anni il dominio di Ligresti nel settore dell’immobiliare e delle costruzioni e poi nelle assicurazioni, peraltro considerate più come una cassaforte finanziaria che come un distributore di polizze.
Favori di Mediobanca che Ligresti ha ampiamente compensato, soprattutto tramite le assicurazioni, diventando il principale partecipante ai patti di sindacato che Cuccia e Maranghi per decenni inventavano per blindare il controllo della cosiddetta Galassia del Nord: da Gemina a Rcs, da Italmobiliare a Ferfin, dalla stessa Mediobanca a Fondiaria, Ligresti è sempre stato onnipresente e deferente nel garantire l’ordine finanziario voluto da Cuccia acquistando quote di minoranza, piccole ma decisive, nei principali gruppi finanziari e industriali del Paese (da cui la famosa definizione di mister 5%). 
Nel bene o nel male, l’Ingegnere - condannato dai Tribunali italiani per due volte - è stato un (in)discusso protagonista del capitalismo italiano del secolo scorso. Un capitalismo finanziario assai prossimo al mondo politico, come testimonia la vicinanza di Ligresti al Psi di Bettino Craxi negli anni ’80 dei grandi investimenti immobiliari a Milano - fortificato dal legame con Massimo Pini, trait d’union prima con i socialisti e poi con il mondo della politica ormai berlusconiana che andava oltre la tradizionale amicizia con la destra garantita dai fratelli La Russa.
L’inizio della fine di Ligresti risale a meno di dieci anni fa e coincide con la crisi dei suoi referenti politici e, in contemporanea, con l’uscita di scena di Vincenzo Maranghi (erede di Cuccia) da Mediobanca. Da lì in poi, un mondo finanziario basato sui patti di sindacato - di cui Ligresti è stato probabilmente il più grande protagonista - ha iniziato a scricchiolare e poi a scomparire. L’indomito Ligresti provò allora a riposizionarsi su Cesare Geronzi, allora dominus di Capitalia e da sempre in ottimi rapporti con l’Ingegnere. La nuova FondiariaSai entrò nel patto di sindacato di Capitalia e, tramite Geronzi, esercitò per alcuni anni un’influenza su Impregilo - mediata con alterne fortune da Massimo Ponzellini - riportando per breve tempo Ligresti nel settore delle grandi costruzioni. La fusione tra Capitalia e UniCredit traghettò l’Ingegnere nel capitale e nel consiglio di amministrazione della banca guidata da Alessandro Profumo che, nella fase finale del suo mandato, si legò ai Ligresti e ai loro alleati libici presenti nel capitale di UniCredit. Un’alleanza tattica di corto respiro e destinata a tramontare dopo la celebre festa libica a Roma con Gheddafi, all’epoca del cadente Governo Berlusconi. 
La fine dei patti di sindacato e l’uscita di scena degli storici “padrini” politici segnò l’inizio della fine dell’Ingegnere. La crisi del debito pubblico del 2011 mise in crisi FondiariaSai, colosso finanziario dal patrimonio incerto e dalla eccessiva espozione immobiliare. Nei giorni drammatici del salvataggio, si racconta che Ligresti chiedesse ai collaboratori: «Ditemi chi devo chiamare a Roma e risolviamo la crisi al volo». Ma il mondo aveva preso a funzionare in un modo diverso. O forse l’anziano Ingegnere non si era adeguato al nuovo corso della politica e alla new wave della finanza, a partire da Mediobanca. I salvataggi tra «amici», così come i patti di sindacato, non erano più contemplati nel nuovo dizionario dei mercati.
A Ligresti non rimase altro che trattare la resa, ingloriosa per lui, e l’uscita di scena da FondiariaSai negoziando tutele e piccoli benefici per i figli. Se ne è andato in silenzio, regola che in pubblico ha seguito per tutta la vita, portandosi via mille segreti della storia della finanza italiana degli ultimi cinquanta anni.