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 2018  maggio 15 Martedì calendario

Vita di papa Gregorio VII

Il 14 maggio 1872, il cancelliere tedesco Otto von Bismarck, nel pieno del Kulturkampf, la disputa che opponeva lo Stato tedesco alla Chiesa, cercò di rassicurare il Reichstag con queste parole: «Non preoccupatevi, noi non andremo mai a Canossa, né con il corpo, né con lo spirito!». A quel punto, tutti i membri dell’assemblea si alzarono in piedi e si ebbe un applauso davvero fragoroso. Dopo circa 800 anni da quando un imperatore tedesco era andato nel castello di Matilde per farsi perdonare da un Pontefice, Canossa era considerata ancora «un’onta per la memoria della nuova ed eterna nazione tedesca», scrive Glauco Maria Cantarella nello straordinario Gregorio VII pubblicato dalla casa editrice Salerno.
All’epoca, nel 1077, l’imperatore Enrico IV aveva 28 anni, il papa Gregorio VII ne aveva 63: erano uno di fronte all’altro due potenti, uno giovane, l’altro, per l’epoca, anziano. Il castello era circondato da un triplice giro di mura e il sovrano, che pure era di «costituzione robusta», prima di essere ammesso al cospetto del Papa fu costretto ad attendere tre giorni dall’alba al tramonto (dieci ore ogni dì) immobile, vestito solo con mantello e cappuccio del pellegrino, digiuno, a piedi nudi sulla terra gelata di gennaio. Superata la prova, poté incontrare il Pontefice (in presenza della padrona di casa Matilde di Toscana, dell’abate Ugo di Cluny e Adelaide di Torino) e quella fu la prima e unica volta che i due si incontrarono. La penitenza – va ricordato – «non era a discrezione di chi la disponeva, aveva regole precise», e, fa notare Cantarella, «implicava automaticamente il perdono»; vale a dire che, se il penitente la compiva secondo le forme dovute, «non poteva non essere assolto». Talché l’attesa al gelo e a piedi scalzi non fu vana. E il Papa, una volta accettato di incontrarlo dopo il rito di espiazione, fu implicitamente obbligato a perdonare l’imperatore. Imperatore che appena un anno prima lo aveva dichiarato decaduto.
Per certi versi, penitenza a parte, fu Gregorio a piegarsi. Passava un colpo di spugna sulla colpa di Enrico, il quale, sulle orme dei suoi predecessori, nel 1076 aveva convocato un sinodo a Worms e aveva intimato al Papa di abbandonare la Sede Apostolica accusandolo addirittura di averla usurpata. Il Papa aveva reagito scomunicandolo (ed era la prima volta nella storia che ciò accadeva). Al che i prìncipi germanici avevano minacciato di non riconoscere più Enrico come loro sovrano qualora questi non fosse riuscito a far annullare la scomunica. Solo allora Enrico aveva accettato di compiere il gesto di pentimento. Un gesto dal forte impatto simbolico e però, ad ogni evidenza, insincero. Compiuto solo al fine immediato di riguadagnare il consenso dei propri sudditi. Se ne dovrebbe trarre la conclusione, secondo Cantarella, che a Canossa non vinse nessuno. O meglio, i due protagonisti, Papa e re, uscirono entrambi sconfitti. Sì, anche il Pontefice. Quell’occasione, «dannatamente pubblica, solenne e perfetta sotto il profilo rituale», scrive Cantarella, «costituì una trappola per Gregorio VII, un vero cul de sac». Sicché si potrebbe sostenere che il Papa ebbe in un certo senso a perdere più dell’imperatore. Anche se Canossa da quel giorno restò a simbolo dell’umiliazione inflitta da un uomo di Chiesa a un capo di Stato. E, più in generale, «andare a Canossa» significò per sempre essere costretti a compiere «un clamoroso atto di sottomissione».
Ma Canossa non fu il momento più significativo del pontificato gregoriano. Ildebrando di Soana, eletto Papa nel 1073 (prese il nome Gregorio VII, ispirandosi a Gregorio Magno), «regnò» fino al 1085: 376.099.200 secondi, 6.268.320 minuti, 104.472 ore, 4.353 giorni, 12 anni, 1 mese e tre giorni, ha calcolato Cantarella. Nel corso dei quali – ed è questo che conta – «scandì l’avvio alla modernità». Probabilmente Gregorio fu il Papa più importante della storia della Chiesa, a tal punto incisivo e travolgente nella «lotta per le investiture», da «indurre a marcare con il suo nome centocinquant’anni di storia». Addirittura, per certi versi, a dividere i mille anni che lo avevano preceduto dai mille che sarebbero venuti dopo di lui. Non «avrebbe nessun senso stare a precisarlo», scrive Cantarella, «se la storiografia contemporanea nel suo complesso non avesse dimostrato di non volersene dare per intesa». Al punto che, a giudizio dell’autore, la «migliore dettagliata, inarrivabile» biografia di Gregorio VII è quella monumentale di H.E.J. Cowdrey, che risale a pochissimo tempo fa. Solo vent’anni. Prima di allora, aveva già sostenuto lo studioso Harald Zimmermann, al posto di «biografie soddisfacenti sotto ogni profilo», esisteva soltanto «una gran mole di studi monografici in attesa di rielaborazione». Insomma, prosegue Cantarella, pur essendo quell’uomo di Chiesa un «gigante della storia», «non ne abbiamo rappresentazioni coeve», e in età moderna non è stato mai protagonista di un romanzo storico, l’industria cinematografica e audiovisiva non se n’è mai occupata (diversamente da Carlo Magno che passa per essere il «padre dell’Europa»). E sì che, protesta lo storico, a quel Papa dovremmo riconoscere «la costruzione della Chiesa cattolica moderna sotto il segno del papato», un edificio nonostante tutto «più saldo e più duraturo dell’(idea di) Europa». Forse non a lui personalmente, «ma certo ai processi innescati nei suoi anni di regno» va ascritto altresì «il passaggio verso il volto moderno dell’Europa, quello della fine dell’età carolingia, il mondo delle città, delle università, della burocrazia». E di molto altro ancora.
A Gregorio VII si deve prima di tutto il Dictatus Papae con il quale, nel 1075, al secondo anno di pontificato, stabilì essere il Pontefice vescovo universale, una sorta di reincarnazione di San Pietro che, una volta investito dei propri poteri, aveva il diritto di decidere in ogni situazione riguardante la cristianità. Il Papa – stabilì Gregorio – ha la facoltà di giudicare tutti, ma non può essere giudicato da nessuno. Può deporre, trasferire e reintegrare i vescovi. Può far decadere l’imperatore. Fu per questo che quando il giovane Enrico pretese di continuare a nominare i «suoi» vescovi (come aveva fatto suo padre), il Papa lo scomunicò e iniziò lo scontro che avrebbe portato a Canossa. Il Dictatus stabilì anche che sotto la guida del Papa la Chiesa non ha mai errato e mai potrà errare. Tutte facoltà che, di volta in volta, si erano già affacciate nella storia della Chiesa, ma a cui Gregorio diede sistematicità. Accompagnandole ad una lotta senza quartiere contro la simonia e il matrimonio degli ecclesiastici (nel 1078 dispose la sospensione di tutti i vescovi che avessero concesso il concubinato a membri del clero).
A dimostrazione dell’assunto di Cantarella (secondo il quale da Canossa Papa e imperatore uscirono entrambi sconfitti), la contrapposizione tra Enrico e Gregorio riprese a tutto vantaggio del primo, che pretese dal Pontefice la deposizione del suo rivale Rodolfo di Svevia. Gregorio rifiutò e i due si scomunicarono a vicenda. Ma stavolta (1080) Enrico contrappose a Gregorio un antipapa, Clemente III, con il quale marciò su Roma (1084), sconfisse il Pontefice legittimo, lo imprigionò e si fece incoronare da Clemente. In seguito Gregorio fu liberato dai Normanni di Roberto il Guiscardo, che lo misero in salvo a Salerno dove nel 1085 morì. Morì in esilio, sotto la protezione, («oppure anche la custodia») dei Normanni. Non era il primo Papa costretto ad andarsene, esule, da Roma, scrive lo storico, né sarà l’ultimo. Ma «per lui era particolarmente bruciante, perché profondamente radicato nell’Urbe, anche se proveniva dalla Tuscia». E perché «nei romani aveva sempre avuto la base del suo regno». Fino a qualche anno prima quando il consenso dei romani aveva iniziato a sfaldarsi, la qual cosa era risultata oltremodo evidente quando i Normanni, giunti a «liberarlo», avevano approfittato dell’occasione per mettere a sacco la città. Triste conclusione di un pontificato che aveva dato il la ad una riforma di proporzioni epocali.
In seguito, scrive Cantarella, i Papi non rinunceranno mai alla grande conquista di Gregorio VII: il «primato del primato romano», vale a dire il «primato papale». «Neppure», nota con acutezza lo studioso, «il papa-altro (per non dire antipapa) Clemente III, che fece sua l’idea dell’eresia come disobbedienza alla Sede Apostolica, anche se non usò mai questa espressione, per quel che di lui ci è rimasto». I Papi che vennero poi fecero proprie le acquisizioni di Gregorio VII «senza proclami e senza schiamazzi» e soprattutto ebbero la «strumentazione non soltanto teorica ma pratica», via via «aggiustata e messa a punto» proprio in età gregoriana. Alla morte di Gregorio VII, la lotta per le investiture durò per altri 37 anni e quattro mesi. Anni assai rilevanti, nel corso dei quali fu indetta nel 1095 da Urbano II (considerato l’autentico erede di Gregorio VII) la prima Crociata. E va ricordato che Urbano II ebbe ancora problemi con Clemente III: eletto Papa a Terracina nel marzo del 1088, Urbano poté raggiungere Roma, in mano a Clemente, solo nel tardo autunno di quell’anno e dovette risiedere sull’Isola Tiberina; poi nel 1090 riuscì a conquistare la città, ma la pressione dell’imperatore fu tale che anche lui fu successivamente costretto a fuggire. Rientrò a Roma nel 1093, ma subito si rimise in viaggio e, come è noto, bandì la prima crociata da Clermont. Anche il suo successore, Pasquale II, ebbe a che fare con il rivale di Gregorio, l’antipapa Clemente III, che morì solo nel 1110 (fu addirittura oggetto, per un po’ di tempo, di una sorta di culto, fino a che papa Pasquale II – per farla finita con quell’antipapa – ne fece esumare le spoglie per disperderle nel Tevere).
In storia, scrive l’autore, «non possiamo pretendere di spiegare tutto». Cercare di capire, però, «possiamo e dobbiamo». E per cercare di capire è necessario «segnalare i problemi» (le soluzioni, magari, le troveranno altri). La ricerca storiografica «non è mai chiusa, è un processo in divenire»; ogni generazione «dovrebbe spianare la strada alla generazione successiva, perché possa progredire più agevolmente senza dover perdere tempo ad abbattere i vecchi steccati, come invece capita di dover fare sempre più spesso oggi proprio con la Riforma gregoriana». Cantarella tiene a sottolineare che Gregorio VII non fu «un eroe». La sua è «la storia di una persona normale, con preparazione e responsabilità eccezionali», che si è trovata «a vivere in tempi se non eccezionali almeno molto difficili, in cui si erano progressivamente sgretolati i quadri di organizzazione e di riferimento dell’intera società». Ildebrando-Gregorio «ha dovuto gestire l’onda di cambiamenti che prescindevano da lui» e, per farlo, «si è comportato né più né meno che da persona normale, con le sue convinzioni, le sue duttilità, le sue contraddizioni». Non ha mai fatto nulla per passare da eroe. Né consapevolmente («per quanto possiamo vedere dai testi che ha scritto, dettato o ispirato e revisionato»), né inconsapevolmente («per quanto siamo in grado di interpretare i sottotesti dei suoi testi»). Ha detto ripetutamente di essere solo «una persona normale alle prese con situazioni complicate, e a questo punto possiamo prestargli fede e dargli ragione». D’altro canto, ironizza l’autore, «eroi non si nasce e nella maggior parte dei casi nemmeno si vuol diventare; sono gli altri che attribuiscono la qualifica di eroe».
La lotta per le investiture proseguì ancora per una dozzina di anni e si chiuse il 23 settembre 1122. «Per sempre», scrive Cantarella, «senza vinti né vincitori». O meglio, «con due vincitori, perché entrambi, Papa e imperatore, si proclamarono trionfatori». E il bello, conclude Cantarella, «era che nessuno dei due aveva torto». Quanto meno in quel momento. Perché, considerata quell’esperienza, a (quasi) mille anni di distanza, possiamo tranquillamente dire che fu la Chiesa ad uscirne con una prospettiva ben più duratura.