Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  aprile 25 Mercoledì calendario

«Fu lui a uccidere Lidia Macchi». L’ergastolo a Stefano Binda 31 anni dopo

Varese Ci sono voluti trentuno lunghissimi anni per dare un nome all’assassino di Lidia Macchi, la 21enne trovata morta nei boschi vicino al lago Maggiore a Cittiglio, in provincia di Varese, il 7 gennaio 1987. 
La Corte d’assise ha pronunciato il verdetto, condannando all’ergastolo il 50enne Stefano Binda, che frequentava la scuola della vittima e che era stato arrestato dalla squadra Mobile di Varese per una lettera riconosciuta da una testimone come scritta di suo pugno e inviata alla famiglia nel giorno dei funerali, dove figuravano riferimenti all’omicidio che solo il killer era in grado di conoscere.
Attorno a quel particolare grafologico e alla verifica dell’alibi dell’imputato – il quale si è sempre dichiarato estraneo ai fatti perché era in vacanza in montagna – si è svolto il processo, durato un anno. La lettura della sentenza è avvenuta di fronte ai famigliari della ragazza. Il caso Macchi è stato uno dei «cold case» più volte trattati dagli approfondimenti giornalistici: un delitto irrisolto al centro di un processo indiziario che ha visto le parti sfidarsi a colpi di perizie, fino alla decisione di ieri. La tesi dell’accusa era che i due avessero una frequentazione sporadica e che Lidia fosse intimamente innamorata di Stefano, una persona colta, con un fascino capace di coinvolgere con stimoli culturali, ma ai tempi del fatto dipendente dall’eroina. I vetrini contenenti il liquido seminale dell’omicida sono stati distrutti per «sbaglio» 17 anni fa, e il dna isolato in alcuni capelli nella zona pubica della ragazza dopo la riesumazione dei resti di Lidia non appartiene all’imputato.
Il dispositivo del giudice non ha riconosciuto l’aggravante dei motivi abbietti e futili ma quella della crudeltà: si è trattato quindi di un delitto d’impeto, sfociato in 29 potenti coltellate, dopo la consumazione di un rapporto sessuale, il primo della giovane, che all’epoca frequentava gruppi di Comunione e liberazione.
I difensori, molto sorpresi dalla decisione, hanno promesso battaglia in Appello: «È una sentenza ingiusta perché mancano le prove. Ora attenderemo le motivazioni, che verranno depositate tra 90 giorni». Sebbene sul caso abbia forse «pesato» anche la forte sovraesposizione mediatica del processo, il pubblico ministero Gemma Gualdi nel commentare la sentenza ha riconosciuto un ruolo importante della stampa «che aiuta a pronunciare la verità, e senza verità lo Stato italiano fatica a procedere. Bisogna credere che lo Stato c’è, come ci sono la verità e la giustizia».
Andrea Camurani

****

I segreti dell’assassino e il coraggio della madre 
La sentenza sulla lapide con la scritta «Per te»C’è una fotografia. Lidia che sorride. La conosciamo così: di mezzo profilo, i capelli mossi; e quel sorriso lieve, posato, già non più da ragazza. In ogni udienza, sua mamma Paola ha tenuto davanti quest’immagine sul banco dell’aula bunker. Ha sempre guardato più lei che i giudici, gli avvocati e il killer, quello stesso Binda che fu tra i primi a correre dai Macchi per le condoglianze. Da ieri mattina, vicino a quest’immagine che è posizionata anche sulla tomba, c’è una copia della sentenza di condanna. Con due parole scritte a penna: «Per te». Le parole sono sottolineate. «Quand’era stata uccisa la mia Lidia, mi avevano nascosto molti particolari. Sapevo di qualche coltellata e non di ventinove la prima delle quali in volto; non sapevo avesse cercato di scappare, non sapevo fosse senza vestiti... Durante il processo ho dovuto affrontare di nuovo le storie dei vetrini del liquido seminale, dei peli pubici... Ma adesso la mia Lidia riposerà in pace». L’ha portata Paola con le sue mani, la copia della sentenza al cimitero. «Ero con il mio avvocato, Daniele Pizzi, ormai un figlio... Mancava mio marito, l’ho perso nel tempo. Però ho avuto la fortuna di incontrare tanta brava gente, in questi mesi: mi fermavano per strada, “siamo genitori, non s’arrenda mai”. Non mi sono arresa». Perché il caso forse è ancora aperto. 
I depistaggi
Non è esercizio retorico ricordare non soltanto l’enorme, colpevole vuoto temporale tra il delitto e l’arresto del colpevole a causa di iniziali indagini mal eseguite per incapacità, sciatteria, condizionamenti, e di prove fondamentali andate perdute ugualmente per incapacità, sciatteria, condizionamenti. Bisogna ricordare l’isolamento nel quale hanno lavorato i due poliziotti della Mobile di Varese che catturarono Binda, le enormi pressioni da Varese a Roma su magistrati e consulenti, i messaggi spesso anonimi ma eloquenti inviati a chi ha scritto liberamente di Lidia Macchi, di Stefano Binda e soprattutto del mondo, quello di Comunione e liberazione, che ha unito vittima e carnefice. Nel primo periodo di detenzione, l’assassino era stato trasferito d’urgenza in un carcere più monitorato per il timore che, innescato da frasi sibilline, si potesse suicidare. Un rischio ora più che mai concreto. Binda, l’ascetico Binda dimagrito e lettore della Bibbia, custodisce e protegge segreti che chiamano in causa preti, uomini influenti della comunità locale, mariti con famiglie numerose, docenti universitari, persone ancorate a stagioni di droga e prostituzione le quali pensavano che Lidia Macchi fosse un passato lontano. Sepolto. Quand’è stato chiamato in aula, Binda ha dato l’impressione di trattenersi, di voler omettere riferimenti. Dicono che in cella abbia studiato le carte del processo. Voleva costruirsi la miglior difesa senza delegare troppo ai due legali. 
Alibi, nomi, silenzi
Non hanno mai – mai – voluto commentare, quelli della cerchia del killer. Mai. L’unico che s’era lasciato andare era stato don Fabio Baroncini, all’epoca guida spirituale di quel gruppo di Comunione e liberazione. Al Corriere aveva detto: «Non sono convinto che l’intera verità sia emersa». L’indomani don Baroncini aveva negato e rinnegato le sue parole ed era divenuto imprendibile. L’alibi di Binda, l’assenza nei giorni dell’assassinio per una vacanza in montagna, non è stato confermato dalle decine di ex compagni presenti e lo stesso Binda ha ripetuto di non ricordare nessuno. Tranne due amici che hanno confermato la versione. Nella presunta stanza di Binda erano in cinque. All’appello ne mancano due. Uno era denominato Matthew, l’aveva scritto lui su un’agenda. Chi è Matthew? «Non ricordo». E per quale motivo Binda aveva segnato sull’agenda la composizione della camera? «Un’abitudine dei miei viaggi» aveva risposto all’avvocato Pizzi, decisivo con i guizzi da investigatore. Se era un’abitudine perché non era avvenuto per altre vacanze a Bobbio, Parigi, Cervinia? 
Madre e figlia
Ci sono inquirenti che stanno piangendo. Più d’uno, nonostante dense carriere, considerava l’inchiesta una ragione di vita. Arrivare fino in fondo, trovare il colpevole, farlo condannare. C’erano stati giuramenti a mamma e papà di Lidia. C’erano stati pomeriggi di preghiere e pensieri sulla tomba. E davvero diventa commovente ascoltare mamma Paola che in uno slancio per niente costruito – è una donna semplice, una donna stanchissima – si perde nei ringraziamenti. Li elenca uno a uno. «Ci hanno creduto e sarò loro eternamente grata». Non nomina Stefano Binda. «La mia Lidia è sempre con me. Mi ha dato e dà una forza immensa. Io sapevo unicamente una cosa, dall’inizio: un giorno ci avrebbe permesso di trovarlo. Io lo sapevo». 
Andrea Galli