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 2018  aprile 23 Lunedì calendario

Il giudice della trattativa che sequestrò un innocente

A dargli torto fu la Corte costituzionale, con una storica sentenza firmata da Riccardo Chieppa presidente, con i giudici Zagrebelsky, Onida, Mezzanotte, Contri, Neppi Modona, Capotosti, Marini, Bile, Flick, De Siervo, Vaccarella, Maddalena, Finocchiaro. La storia è questa. L’ex ministro democristiano Calogero Mannino, considerato la chiave della trattativa Stato-mafia, era stato arrestato il 13 febbraio del 1995 su ordine di custodia firmato dal gip di Palermo Alfredo Montalto, che aveva motivato il provvedimento con il pericolo di depistaggi nelle indagini. 
Rinchiuso nel carcere romano di Rebibbia, si ammalò gravemente fino ad arrivare ad uno stato di deperimento (come attestarono anche Marco Pannella e altri parlamentari) che lo portò alla scarcerazione. 
Nel 2008 la Corte d’appello di Palermo, presieduta da Claudio Dell’Acqua, dopo tre gradi di giudizio, assolse definitivamente Mannino dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa per la quale il sostituto procuratore generale Vittorio Teresi, sodale di Ingroia e di Di Matteo, di cui sono noti gli orientamenti politici, aveva chiesto la condanna a otto anni. Il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, sollevato dal Tribunale di Caltanissetta con atto del 19 luglio 2001, ha per oggetto la deliberazione con la quale la Camera dei deputati, nella seduta del 21 giugno 2000, dichiarò che i fatti per i quali era in corso innanzi al medesimo tribunale il giudizio per diffamazione aggravata nei confronti del deputato Vittorio Sgarbi, riguardano opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni parlamentari, insindacabili ai sensi dell’articolo 68, primo comma, della Costituzione. Tre anni di ingiusta carcerazione preventiva per un reato inesistente sono l’idea di giustizia espressa da Montalto, al quale lo Stato e anche i difensori degli imputati hanno consentito di presiedere questo processo, trasformando la confusa tesi della accusa in una gravissima condanna politica. Lo Stato deve reagire. Io, leso nella libertà delle mie scelte politiche, come feci con Ingroia, e il Giornale mi seguì senza alcuna reazione giudiziaria, denuncerò i pubblici ministeri e i membri della Corte per diffamazione, avendo partecipato alla fondazione del partito Forza Italia da loro fantasiosamente chiamato in causa. Estendendosi al governo e alle scelte politiche di Berlusconi, le accuse dei magistrati investono anche la Lega perché nel 1994, quando si evoca l’azione (irreale) di Dell’Utri, il ministro dell’Interno era Roberto Maroni.