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 2018  aprile 23 Lunedì calendario

«Da infermiere a creativo. E ora vendo la mia fronte per finanziare buone azioni». Intervista a Maurizio Cattelan

Il mondo non è stato creato una volta, ma tutte le volte che è sopravvenuto un artista originale. Marcel Proust ne era convinto, ma ascoltando il racconto della vita di uno degli artisti più originali in assoluto, Maurizio Cattelan, viene da chiedersi anche quanto conti il destino – assieme al talento e alla tenacia – perché chi è in grado di creare nuovi mondi, riesca anche poi a farli conoscere. 
Intanto, come si stabilisce cosa è arte e cosa non lo è?
«È come innamorarsi. Nel momento in cui la vedi sai che la tua vita non sarà più la stessa: è quell’idea capace di colonizzarti la mente e di cui è impossibile liberarsi. L’esperienza di un’opera d’arte è qualcosa che ti segna per sempre, tanto quanto un colpo di fulmine per una persona che non conosci. L’arte, come l’amore, è un elemento che non si può replicare con l’intelligenza artificiale: più queste sperimentazioni si affineranno, più capiremo quanto non sia possibile arrivare all’esperienza estetica tramite la riproduzione artificiale».
Oggi, l’Accademia di Belle Arti di Carrara le conferirà il titolo di Professore onorario. Di solito manda altri a ritirare i numerosi premi che riceve, questa volta no. Perché?
«Sono affetto da una gravissima forma di premiofobia: non riesco a guardare in faccia chi mi sta premiando, figuriamoci il pubblico. Ho sempre trovato più cortese, invece di rifiutare, mandare qualcuno a ritirare i riconoscimenti per me e cercare di imparare come si fa. Questa volta, per una buona causa, ho deciso di cimentarmi in prima persona. Ma so già che farò una figura peggiore dei miei predecessori».
Si presenterà alla cerimonia con la fronte affittata. Con i soldi dello sponsor – Huawei —, donerà venti borse di studio agli studenti della scuola...
«Come molte cose, è iniziato da un gioco stupido: mi succede ogni tanto di acconsentire a andare a un evento con qualche stupidaggine scritta addosso. Ho pensato che invece di farlo per scherzo poteva rivelarsi utile: vendendo la mia fronte a un marchio avrei potuto fare una buona azione coi soldi ricevuti in cambio. Solo dopo ho realizzato che, in fondo, è un cerchio che si chiude con il lavoro presentato in Biennale nel ’93, quando vendetti lo spazio di un billboard a un marchio di profumi. Oggi il billboard sono io. La dimostrazione vivente che l’arte può essere stupida, ma anche utile». 
Cosa significa provocare? 
«Si dice che i libri che il mondo chiama immorali siano i libri che mostrano al mondo la sua vergogna. La provocazione funziona esattamente allo stesso modo: non è altro che un cavallo di Troia per mettere sulla bocca di tutti argomenti che si vogliono tacere. La cosa interessante è che quello che troviamo provocatorio è totalmente soggettivo, un po’ come quando racconti una barzelletta divertentissima ma nessuno ride. Non puoi prevedere se gli altri la troveranno divertente, puoi solo decidere di correre il rischio di esporti».
Da bambino avrebbe mai immaginato che sarebbe diventato l’uomo che è diventato? 
«Da bambino desideravo con tutte le mie forze liberarmi dell’autorità dei miei genitori. Sono scappato di casa e andato a lavorare per poter vivere da solo. A quel punto il desiderio era diventato far fuori i miei datori di lavoro, e ho cominciato a fare l’artista. Quando sono andato in pensione, è perché stava nascendo lo stesso desiderio verso i galleristi: fare l’artista era diventato un mestiere come gli altri, aveva perso il sapore anarchico e proibito che lo rendeva gustoso e desiderabile. Quel desiderio è l’unico motore che abbia mai avuto».
Ci sono dei bivi che se non avesse preso avrebbero cambiato, forse, la sua carriera?
«È stato ricorrente nella mia vita: il cambiamento equivale a una fuga in avanti, un po’ come nel ciclismo. Prima di approdare a Milano ho fatto cinque anni di limbo. Quello che mi ha portato a Milano è la determinazione, il volere una vita diversa da quella che avevo vissuto fino a quel momento. Mi ero ripromesso che non avrei mai più lavorato alle dipendenze di qualcuno, e Milano è stato dove per la prima volta ho capito come potevo riuscirci. Era una città aperta al nuovo, e tutti erano pronti a incoraggiare i giovani artisti. Non mi guardo indietro di solito, ma le poche volte che l’ho fatto mi sono detto che se fossi rimasto dov’ero probabilmente a quest’ora sarei in galera: avrei applicato la creatività alle rapine».
Oggi è l’artista italiano più quotato...
«Ma se non ci fossero i giornalisti a ripetermelo, sono sicuro che me lo sarei dimenticato. È come se fossi famoso per essere andato a letto con una star di Hollywood vent’anni fa: mi stupisco che faccia ancora notizia».
Le sue case sono vuote, legge moltissimo ma regala tutti i libri e anche su Instagram pubblica un solo post al giorno che poi cancella. Non è curioso specie per chi, fondamentalmente, produce oggetti?
«Gli oggetti sono ricordi che hanno preso una forma nella realtà. Sono lì a farti presente in ogni momento che il tempo scorre inesorabile e che esiste un passato in cui quegli oggetti hanno significato qualcosa. Vivere senza la pesantezza di questo bagaglio di cose e di pensieri mi permette di guardare in avanti con leggerezza e lucidità. E poi mi piace l’idea di essere sempre pronto a trasferirmi dall’altra parte del mondo, senza guardarmi indietro». 
Ma c’è qualche opera d’arte che vorrebbe in casa sua? 
«Più che le opere avrei voluto conoscere gli artisti: passare un pomeriggio al Jamaica (uno storico locale di Milano, ritrovo degli artisti, ndr.), chiacchierare con Piero Manzoni davanti a uno spritz, vedere arrivare Mondino a cavallo di un cammello... avrei voluto conoscere il lato non artistico di molti di loro, per guardare alle opere sotto una luce meno storica e più vitale».
La luce che illumina tutte le sue opere è l’ironia. Cosa rappresenta per lei?
«Uno strumento per mettere in evidenza le contraddizioni del mondo in cui viviamo: penso che l’ironia sia la quintessenza della reazione umana alla paura della morte, quindi la sua natura è decisamente tragica». 
A un certo punto della sua carriera, l’arte la stava «soffocando», tanto da non riuscire più a dormire la notte.
«Aveva perso l’aspetto anarchico, quella natura imprevedibile di cui mi nutrivo quando ho iniziato a fare l’artista. Mi sentivo costretto in una morsa di risposte da dare e decisioni da prendere su questioni che non mi sembravano rilevanti. E perdere tempo a fare qualcosa che non ci dà soddisfazione è un lusso che nessuno dovrebbe concedersi». 
Per citare un suo lavoro, lavorare è un brutto mestiere?
«Sì, finché fai un mestiere che non ti piace, o un lavoro che nessun altro vuole fare».
Prima di diventare un artista, è stato un infermiere... 
«Per fare quel lavoro devi avere la vocazione, come per fare il prete: il tuo contributo non è solo in quello che fai, ma in quello che dai come apporto umano. È una sfida continua con te stesso, perché devi mettere da parte i tuoi problemi, e al tempo stesso non farti influenzare la giornata da quelli degli altri. Dopo un po’ mi avevano spostato in terapia intensiva. Lì ovviamente nessuno parla, non c’è uno scambio emotivo, è pieno di strumenti che fanno migliaia di rumori elettronici, è come vivere nel regno delle macchine. Poi, dal mondo dei vivi che stanno morendo, ero stato trasferito al piano di sotto, ai morti. In entrambi i casi, ho imparato che se lavori con i vivi non puoi indulgere a malumori: è probabilmente per questo che per me la vita è molto più seria della morte». 
Dice di essere interessato al dibattito che le sue opere suscitano nel pubblico. Perché? È importante essere «capito»?
«Il contesto di un’opera fa parte del suo significato, così come lo è il punto di vista dello spettatore. L’arte è un territorio che tutti sono in grado di esplorare, perché non è coinvolto nessun alfabeto, ma allo stesso tempo nessuno avrà le stesse sensazioni o esperienze del suo compagno di viaggio. È il regno dell’interpretazione soggettiva. Quando penso a un’opera non penso alla reazione del pubblico. Come un genitore con un figlio, evito di proiettare le mie aspettative sull’opera: ogni artista deve accettare che una volta cresciuta e diventata indipendente non si può controllare se l’opera frequenterà le giuste compagnie. Qualcuno una volta ha detto che le nostre teste sono tonde in modo che i nostri pensieri possano volare in qualsiasi direzione: non esiste un modo specifico di interpretare un’opera, la sua forma è rotonda come le nostre teste. Le persone possono trovare un percorso personale, ogni modo è percorribile».
Spesso, dell’arte contemporanea c’è chi dice: questo lo saprei fare anche io...
«Credo che il dovere dell’arte sia di fare domande, non fornire risposte. Se davanti a un’opera vuoi una risposta chiara e univoca, sei nel posto sbagliato. Se sei capace di creare domande attraverso un’opera, puoi considerarti un artista: è un compito rischioso, puoi scoprire cose su di te e sugli altri che avresti preferito non sapere. Se fosse facile le opere potrebbero essere progettate da macchine».
Come si descriverebbe?
«In un modo così terribile che non si può dire ad alta voce. Se fossi capace di manie di grandezza mi definirei il più grande statista dopo Giulio Cesare. Ma purtroppo o per fortuna l’autostima non è il mio forte».
Cosa le piace nelle persone?
«La franchezza».
Quali sono le sue paure più grandi?
«Tornare da dove sono venuto. Mai guardare indietro a meno che tu non voglia andare in quella direzione. Io mi guardo bene dal farlo».