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 2018  aprile 15 Domenica calendario

Il rito che rende schiavi

Quando non hai i soldi per comprare il pane preghi Dio che ti mandi la manna dal cielo; quando i soldi per il pane ce li hai, preghi per avere da bere, una macchina, una casa e quando hai tutto preghi perché nessuno te lo porti via. Sembra una questione di fede ma è questione di soldi, sembra una preghiera e invece è una bestemmia. Il desiderio è un sentimento semplice che però genera una faccenda complessa come la religione.
Da quel gomitolo soave e al tempo stesso insanguinato che è l’esperienza del culto, proviamo ad estrarre un filo che percorre una strada particolare, periferica e centrale per la comprensione dell’Italia di oggi: la Domiziana. Una statale che comincia dove il Lazio finisce e prosegue verso sud, attraversando il territorio casertano, fino a Napoli. Un pezzo importante di questa strada lambisce un comune che mi è molto caro: ha generato le storie dei miei ultimi film, oltre ad essere il comune dove mia moglie e io abbiamo deciso di convolare a nozze. Sto parlando di Castel Volturno, una potente calamita a cui è difficile resistere.

In questo comune risiedono 25 mila abitanti censiti ufficialmente. Accanto a loro, senza mischiarsi, vivono cinquemila immigrati regolari. Nella cinta più periferica del comune, a ridosso della rive droite del fiume Volturno al confine con il mare, si insedia un numero misteriosamente variabile tra i 10 e i 20 mila immigrati irregolari. Occupano gli immobili abbandonati dalla borghesia casertana e napoletana, villette sul mare, case di villeggiatura sostenute da colonne in stile ionico disertate dai villeggianti, lasciate incustodite dai legittimi proprietari. Quando non riescono a occuparli perché i proprietari privi ormai di ogni afflato vacanziero, hanno deciso di tenersi stretto l’affare e presidiano l’immobile con irremovibilità militare, ne affittano le stanze a prezzi degni del centro di Milano: 120 euro per una stanza. Donne e uomini di varia etnia e culto che lavorano onestamente, passeggiano sulla spiaggia al tramonto mano nella mano, vanno a scuola, si amano teneramente, si accoltellano senza rimorsi, vendono droga, si prostituiscono e, soprattutto, pregano. La maggioranza di loro frequenta regolarmente la chiesa pentecostale, nel comune ne sorgono circa quaranta.
Per capire il valore di questo numero bisogna tenere presente che, sullo stesso territorio sorgono due moschee, una Kingdom Hall per testimoni di Geova, una Chiesta degli Avventisti del settimo giorno e quattro chiese cattoliche. Inoltre, il numero fluttua perché spesso capita che un individuo dedito al commercio di frutta, per esempio, scontento degli affari nel settore, cambi semplicemente l’insegna del negozio e Tony international food and drinks diventi Lord’s new house. E chi si perderebbe mai l’inaugurazione della nuova casa del Signore? Allora gli affari possono tornare a funzionare per l’ex commerciante di frutta divenuto pastore in pochi giorni. Sì, perché per i pentecostali l’uomo è in contatto diretto con Dio e chiunque con il Vangelo in mano e un po’ di parlantina può diventare una guida, un pastore. Ma in che modo si può portare a casa il pane?

Le cerimonie si svolgono due, tre volte a settimana e durano ore. I luoghi di culto sono i più disparati: un capannone abbandonato, un garage, una casa, una vecchia scuola, una tensostruttura sportiva. Alcuni vi si recano indossando abiti tradizionali, altri un saio bianco, altri ancora hanno realizzato vestiti variopinti con le proprie mani, oppure seguono a modo loro le tendenze del momento. Per accedere ad alcuni di questi luoghi è necessario togliersi le scarpe. Il pastore tiene il suo sermone usando periodi brevi cadenzati dagli amèn che riecheggiano nelle gole di tutti i presenti. La lingua usata per i sermoni è un inglese masticato, detto broken English ma non è raro che accanto al pastore ci sia qualcuno che traduce simultaneamente nel dialetto africano meglio compreso dai presenti. I bianchi sono ammessi anche se guardati con un certo sospetto, di solito sono giornalisti o curiosi in cerca di fenomeni da baraccone. Io vengo introdotto da un narratore del posto, Vincenzo Ammaliato, e sono in compagnia del grande sceneggiatore Umberto Contarello che con la sua chioma e giacca bianca spiegazzata ispira immediata simpatia; con noi c’è anche il poeta fotografo della Domiziana Gianni Izzo che finge di non fotografare i fedeli e il pastore che fingono di non mettersi in posa; la mia descrizione è un onere che lascio volentieri ad altri.
Visti insieme suscitiamo un misto di ilarità e fastidio ma credo di sapere come farmi accettare, al momento giusto farò la mia mossa. Intanto, stringo mani. Si balla, si canta, c’è sempre una piccola banda musicale di quattro-cinque elementi, ci si abbandona a momenti di trance mistica ma il clou è l’offertorio. Tre, quattro volte nel corso della celebrazione, larghi piatti e zuppiere di varie dimensioni vengono posti al centro della sala, sotto l’altare, ai piedi del pastore. Devoti, i fedeli, cantano e si agitano in preda a quelle che si possono immaginare come visioni ultraterrene, poi depositano parte degli esigui guadagni della settimana nei piatti. Attenzione ad essere parsimoniosi – il pastore controlla attentamente in che modo ogni fedele contribuisce alle spese della chiesa. Una signora di cinquant’anni, incidentata ma priva di stampelle, trascina la sua gamba ingessata verso l’altare appoggiandosi a una mazza di scopa. Give abundance, have abundance! – tuona il pastore, forse ripescando nella memoria breve e nelle corde vocali robuste le sue doti di fruttivendolo. Il dito alzato e la voce profonda non lasciano spazio a fraintendimenti. Meglio abbondare, si ripetono i fedeli nel segreto delle loro coscienze, non sia mai che poi Dio si mostri parsimonioso con noi come noi lo siamo stati con lui. È a questo punto che i piatti cominciano a traboccare di banconote, la mia carta da 20 euro affoga in tanta abbondanza di cellulosa (era quella la mia fantomatica mossa segreta, credevo) e qualche dubbio comincia a venire anche a me ma resisto, 20 euro mi sembra una cifra adeguata. Tutto sommato.
Due uomini coperti d’oro, pantaloni a vita bassa e occhiali da sole, ma scalzi come me, lanciano platealmente nel piatto alcune carte da 50 euro. I loro guadagni settimanali sembrano sostanziosi, ma chi sono? Non importa. Tutti sono benvenuti alla mensa del Signore, soprattutto i grandi peccatori perché più grosso è il peccato, più grossa l’offerta. Ogni obolo nella cassetta ti avvicina a Dio e alla sua grazia. Il benessere economico è un dono ed è proporzionato alla grazia che Dio ti concede. Dopotutto, come scrive Hanif Kureishi, «Dio è un tipo che perdona».
Mentre fantastico sulle attività degli uomini con gli occhiali da sole, alcune signore ingioiellate sopra e sotto gli abiti tradizionali li imitano. Dio è grande. Lo pensano anche i pentecostali ma lo dicono in inglese e sembra un’altra cosa.

Terminato il rito del culto, davanti alla chiesa (qualunque cosa sia stato l’edificio che ospita la chiesa) ha inizio quello del convivio. I cofani delle macchine si aprono e compaiono polli arrostiti ed altri pezzi di carne cotti in spezie colorate. Le casse di Guinness calda vengono velocemente vuotate e le casse degli stereo propagano musica senza svuotarsi mai. La domenica è una festa e gli africani, come ogni altro essere umano, hanno bisogno di stare insieme. C’è qualcosa nel loro stare insieme che è peculiare però; il comboniano Antonio Guarino, missionario in Africa per molti anni e da quattro anni a Castel Volturno mi spiega: «Per l’africano la comunità è più importante dell’individuo». Eppure, c’è altro nei loro occhi che non riesco a cogliere bene, all’inizio mi sembra comprensibile nostalgia di casa, forse è disperazione, dolore... poi capisco: è paura.
Ogni domenica, sulla Domiziana, donne e uomini africani si battono il petto chiedendo perdono per i propri peccati, ottengono il perdono, ballano, cantano, si ubriacano e vanno in trance. A parte stare insieme, pregare, mangiare e divertirsi, cosa stanno facendo? Stanno scacciando la paura. Per loro il pastore è un brav’uomo che dispensa belle parole ma c’è una figura che rispettano e temono al di sopra di ogni altra, lo chiamano witch doctor, lo stregone. Si vede poco in giro, cammina a piedi nudi e officia i rituali voodoo. Mary, al nono mese di gravidanza, con un figlio e un mioma nella pancia, sentenzia: «Io credo al prete, don Antonio, rispetto il pastore, ma il voodoo è forte, molto più forte di tutto». Il marito di sua sorella, a Benin City, in Nigeria, non riusciva ad avere successo negli affari e si è rivolto a uno stregone che, durante il rito, gli ha chiesto la vita di sua moglie come atto dovuto per ottenere ciò che desiderava. Ebbene quest’uomo, nottetempo, ha davvero ucciso la moglie. In seguito, ha aperto cliniche private ed è diventato ricco. Dice Mary. Il voodoo, o juju, può indurre gli esseri umani che ci credono a compiere qualunque gesto.
Questa pratica strategicamente pianificata costruisce con sistematicità la perversa suggestione che riduce le donne in schiavitù mentale e sta alla base del grande affare mondiale della prostituzione.
Gli stessi stregoni che hanno indotto il cognato di Mary a uccidere la moglie, governano la mente delle ragazze che da Benin City migrano per il mondo. La concentrazione di stregoni nella capitale dell’Edo State in Nigeria è così alta e il governo che tali individui esercitano sulle menti delle loro donne è così forte che la maggioranza delle nigeriane che si prostituiscono sulle strade di tutto i mondo provengono da Benin City.
Un rito voodoo in patria le lega a un giuramento segreto di cui sono responsabili in prima persona e attraverso ogni singolo membro della famiglia d’origine. Sono donne che prestano giuramento in condizioni di evidente coercizione della volontà e sono macchiate da un’unica colpa, originale e non espiabile: la speranza. Arrivano fin qui per questo, la speranza ha dato loro la forza di attraversare la Nigeria, resistere alla Libia, accettare condizioni di vita da schiave che le ammazzano in vita, in attesa di poter risorgere, un giorno; il padre comboniano Antonio Guarino del Centro Fernandez afferma che «l’Africa è un grembo che ti pasce, quando te ne allontani ti senti disorientato»; la speranza, infatti, le rende anche deboli, fiaccate dalla paura ancestrale degli antenati, paura di qualcosa che non si celebra in chiesa, paura di quei terribili riti che le obbligano a sottostare al volere delle loro madame e dei loro capi, a prostituirsi fino all’estinzione di un fantomatico debito – lo ha raccontato su queste pagine Teresa Ciabatti – pena l’avverarsi di maledizioni efferate e perverse. La speranza è così: sta in bilico tra la debolezza e la forza.
È un bilico fatto di lotta strenua tra azioni contrastanti. Le donne colpevoli di sperare rischiano in ogni istante la lacerazione irreversibile di anima e corpo. Il solco più profondo che si crea dà origine a un buco che una volta imboccato è impossibile farne ritorno. È un buco nero, senza sfumature perché i bianchi non vi hanno accesso. Questo buco è fatto di elementi ineffabili come il dolore e la paura quando sono troppo forti per poterli raccontare. A ogni buco corrisponde un sacrificio e un giuramento. Ogni giuramento è vincolato indissolubilmente; chi lo rompe, muore. Assieme a tutti i suoi parenti, ovunque si trovino nel mondo. Ma più della morte, spaventa la maledizione perché può raggiungerti oltre la morte e perseguitarti in eterno.

Tutte le prostitute nigeriane e loro madame hanno prestato giuramento in un rito voodoo. Sono tutte schiave del potere ancestrale del plagio della mente. Prima ancora che della forza deterrente della violenza.
Qualcosa di nuovo però è successo: in questo quadro insopportabile, un colore si è mosso, qualcosa di molto importante. Nella lotta tra forza e debolezza, il mese scorso, un punto importante lo ha segnato la forza.
Oggi, mentre scrivo, sta vincendo la forza. Dal telefono senza fili che collega Benin City a Castel Volturno è giunta la voce dell’Oba Ewuare II, la massima autorità religiosa, quindi la massima autorità e basta da quelle parti. Ewuare II è un leader illuminato, succeduto a suo padre Ewuare I solo due anni fa: ha prestato ascolto alle associazioni non governative che da anni cercano di fare chiarezza sulla natura insanguinata delle ricchezze di madame e sfruttatori. La sua viva voce ha scandito forte e chiaro una controbestemmia che è più potente della bestemmia stessa: «Tutti i nostri medici nativi (stregoni), la cui attività è sottoporre le persone a giuramento di segretezza e incoraggiare azioni malvagie nella terra, devono pentirsi e smettere di farlo. Chi non si adeguerà ne subirà le conseguenze. Vogliamo dire a chiunque vive in condizione di schiavitù, soggiogato da un giuramento, che da questo momento è libero».
Può una forma di esaltazione annullare un’altra forma di esaltazione? Probabilmente, in assenza di una reale prospettiva di rinsavimento collettivo, è l’unica opzione.

Hope, una ventitreenne di Benin City dal nome emblematico, è arrivata oggi al centro d’accoglienza Fernandez di Castel Volturno. Aveva prestato giuramento a Prato, dove viveva assieme ad altre due ragazze, in una casa gestita da una madame poco più adulta di loro, una cugina che l’aveva invitata a raggiungerla in Italia per aiutarla con il suo bambino piccolo. Poi ha scoperto di aver contratto un debito di 30 mila euro. Per estinguerlo si è prostituita sulle strade di Arezzo dall’agosto del 2015, ogni giorno, sette giorni su sette. Fino a ieri.
In seguito alle parole dell’Oba, la sua madame ha stabilito di non poter più accettare soldi da lei. Il suo giuramento è stato annullato, il debito estinto.
È libera.
Antonio Guarino, Antonio Casale e i volontari del centro d’accoglienza le offriranno un pasto caldo e un programma di reinserimento. Potrà, se vuole, anche tornare a casa, nel grembo. Dopo Hope, mi auguro che tutte le altre donne soggette a schiavitù si sentano libere. Dopo essere entrate in case che non somigliano per niente al grembo, animate da un sentimento di insensata speranza, dopo esserne uscite in abiti fosforescenti e aver venduto il corpo per poco a chiunque, dopo essere rientrate in quelle case dalle quali non potevano scappare per non venire meno al sordido legame, oggi, sappiano almeno questo: quel giuramento, oggi, almeno oggi, non è più valido, l’incantesimo è rotto. Dio, a volte, è uno sconosciuto che ti rimbocca le coperte mentre dormi, mentre non lo vedi.