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 2018  aprile 15 Domenica calendario

Vita (e morti) di Julian il killer più letale d’Europa

Il killer ambidestro ha ucciso sparando invariabilmente con entrambe le mani. Ha modificato pistole, costruito silenziatori, fabbricato esplosivi. Durante la lunga ma indeterminata sequenza temporale degli omicidi è rimasto un cittadino modello. Non un reato e nemmeno una multa in macchina (si spostava unicamente con bus, treni e traghetti). Il trentacinquenne Julian Sinanaj, albanese di Elbasan, centomila abitanti nel centro del Paese, è come se non avesse vissuto per oltre metà della sua esistenza. Accertate le origini e l’infanzia entrambe anonime, accertato un trasferimento da ragazzino in Grecia insieme ai genitori (dai quali più avanti si è allontanato) lungo tradizionali canali migratori del popolo albanese, accertato infine l’arresto della polizia nel 2014. Nient’altro. Gli investigatori non sanno perché, come e quando Sinanaj sia diventato un sicario. Il sicario più letale d’Europa: i magistrati di Tirana ipotizzano trentaquattro delitti.
Il «dovere» della vendettaDa quand’è in cella, Sinanaj ha ammesso una piccolissima parte delle esecuzioni che gli attribuiscono in Albania e s’è rifiutato di rispondere agli inquirenti greci che indagano su dieci delitti tra Atene e Salonicco, compresi attacchi con bombe artigianali. La geografia di sangue di Julian lo collegherebbe anche a omicidi avvenuti in Italia a danno di connazionali scappati dopo faide e attentati falliti, e inseguiti dalla promessa di morte sicura. Si possono cambiare città e nascondigli, ottenere false identità e ricevere protezioni: ma la malavita albanese non dimentica e non soltanto perché spinta dalle regole del Kanun, l’ancestrale codice di comportamento che prevede il «dovere» della vendetta di sangue, ammazzando dopo l’uccisione di un proprio consanguineo l’assassino oppure i suoi parenti maschi fino al terzo grado di parentela. 
Dei delitti, Sinanaj dice e non dice. Da una parte è attratto dal profondo interesse suscitato oltre che negli investigatori in psicologi, criminologi e antropologi che vogliono studiarlo, mossi dalla curiosità per un caso forse unico; dall’altra parte Julian ha vissuto così tanto solo con se stesso che l’isolamento in carcere, dove starà per sempre salvo agguati commissionati ai detenuti per eliminarlo oppure il suo stesso suicidio, non lo spaventa. Semmai è lui che spaventa. Ancora adesso. La quantità impressionante di cadaveri, l’estrema disumanizzazione del prossimo diventato semplicemente una meta perfino routinaria, l’assenza di sentimenti, l’espletamento di un lavoro, il massimo e puntuale soddisfacimento delle esigenze del cliente-committente che via via è stato un familiare ossessionato da dissidi «interni», un imprenditore esasperato dai guadagni di un concorrente, un malavitoso inchiodato da un giudice. E poi spaventano, come riferisce nei dettagli a «la Lettura» una qualificata fonte, la preparazione e la conoscenza dei mezzi (armi e ordigni), delle tecniche di pedinamento (mai nessuna vittima s’era accorta d’essere seguita), delle capacità di analisi sull’«obiettivo» e soprattutto della gestione della scena del crimine. Se fosse stato uno sbirro della Scientifica, Sinanaj avrebbe sempre fiutato l’errore dell’assassino. Sempre.
Le tracce e il trucco dei capelliSulla scena del crimine ci sono cinque tipologie di tracce cercate dagli investigatori e una sesta tipologia traditrice. Le tracce dette temporanee sono appunto provvisorie, hanno una scadenza: la temperatura corporea del cadavere che varia con il progredire delle ore e il grado di fluidità del sangue fuoriuscito dal corpo. Nelle vittime di Julian Sinanaj queste tracce provvisorie non sono mai state fondamentali: ha agito anche alla luce, di giorno, all’improvviso, non curandosi di passanti eventuali testimoni, indifferente nel camuffare gli orari dei decessi, abile com’era a dileguarsi. Il modus operandi del sicario si è mantenuto «estraneo» rispetto alle tracce-oggetti e a quelle occupazionali: Sinanaj non ha perso pezzi dei vestiti (bottoni, fibre) e nelle fasi di preliminare monitoraggio delle vittime non ha commesso l’errore di lasciare variazioni di assetti (segni di effrazioni sulle porte e le finestre) non direttamente collegati per contemporaneità ai delitti. Allo stesso tempo ha potuto «giocare» con le tracce morfologiche date dalle forme degli aloni del fumo degli spari e dalle traiettorie dei proiettili. Julian aveva modificato pistole e pallottole e quindi alterato le condizioni di partenza. 
Sembra il ritratto di una macchina da guerra creata in laboratorio, «esemplare» nello stare lontano anche dalle tracce di situazione, le conseguenze dell’omicidio sul suo ambiente (cassetti spostati, mobili rovistati). Possibile questa mancanza assoluta di sbagli? Nessuno è infallibile, alla lunga. E infatti sulle scene del crimine Sinanaj ha dimenticato dei residui. Appartengono alla categoria delle microtracce: sono i capelli. Puntualmente c’erano piccole ciocche vicino ai morti. Peccato che quelle tracce rientrino nella categoria delle tracce ingannevoli. Lasciate appositamente per depistare. Prima delle esecuzioni il sicario incaricava un complice (arruolato fra i balordi locali) d’azzuffarsi con un estraneo, strappargli dei capelli e fuggire. Erano i capelli poi depositati sulla scena del crimine. I poliziotti della Scientifica che li trovavano e analizzavano, ottenevano il Dna del presunto assassino. Che in realtà era un innocente sconosciuto. Di solito le ciocche appartenevano ad asiatici o africani. Sinanaj è stato un maniaco del perfezionismo. Un maniaco il cui volto pare una «conferma»: capelli corti, barba rasata, occhiali, un’aria generale di ordine e riservatezza; chi l’ha visto nell’aula del tribunale ha notato la sicurezza di sé nello stare in scena, il passo tranquillo, l’assenza di tic e nevrosi. 
Quei proiettili sempre a segnoSokol Veizi era un pescatore di Orikum, nella bellissima baia di Valona. Aveva un contenzioso con due cugini per questioni di terre, quei cugini si erano stancati e avevano assunto Sinanaj.
Agron Cela aveva vissuto a lungo in Salento e aveva interessi nel ramo della ristorazione a Valona. La città dove, su incarico di rivali, il sicario l’aveva eliminato con cinque colpi di pistola. Tutti a segno. Era una sera d’agosto. Cela aveva accompagnato a casa moglie e figli, aveva parcheggiato la Mercedes, era sceso e s’era trovato davanti il killer. Quel posteggio era piccolo e custodito, il guardiano aveva giurato che non stava dormendo e non aveva visto nessuno entrare né uscire. Alla polizia Sinanaj ha poi ammesso d’esser stato lui l’omicida e ha ripetuto d’ignorare il motivo del delitto. 
Skerdilajd Konomi era un giudice. La sua macchina saltò in aria sul lungomare di Valona. Le indagini battezzarono antitetici scenari – la scia di contese per proprietà immobiliari risalenti agli antenati e le sentenze contro i boss di Valona – senza generare risultati. Sinanaj, accusato dell’assassinio, ha fatto dei nomi quali mandanti ed esecutori materiali. La ricostruzione ha permesso agli inquirenti di appurare la verità soltanto parzialmente.
L’allenamento alla disciplinaDicono di questo killer che sia capace di sparare da qualunque posizione a qualunque distanza in qualunque situazione. Delle poche cose di sé svelate, Sinanaj ha raccontato la continua esercitazione in poligoni improvvisati nei boschi delle più dimenticate valli albanesi. E di quelle valli sono originari altri killer che s’aggirano per l’Europa. Il processo, che è transnazionale ed è replicato nel cuore dell’ex Jugoslavia, segue il percorso delle giovani costrette alla prostituzione. Ragazzi senza genitori oppure da loro venduti, o ancora rapiti negli istituti per gli orfani, vengono scelti e portati via. Le giovani per essere violentate, picchiate a sangue, soggiogate e costrette a vendersi sulle strade; i ragazzi per crescere alla scuola dei killer. Esercitazioni, addestramento, disciplina fisica e mentale. Allevati con calma, con pazienza. Negli anni. Fino al completamento del percorso. E alle prime missioni. Il maestro di Sinanaj potrebbe essere un greco. Gli ha insegnato l’arte della balistica, l’ha indottrinato su chimica, biologia, medicina – come il miglior esperto della Scientifica, così un perfetto sicario deve avere conoscenze mirate, ampie e trasversali – e l’ha esercitato nella caccia. 
Due settimane per uccidereLe omertà di Sinanaj potrebbero avere una spiegazione. In tutti i delitti il sicario non ha incontrato il cliente-committente il quale, come «da prassi», s’è affidato a un mediatore per impedire un collegamento diretto con il killer e inchiodare ognuno alle proprie responsabilità. Se catturato e messo alle strette, il sicario avrebbe potuto confidare il nome del mediatore il quale, fermato, avrebbe potuto a sua volta rivelare l’identità di chi l’aveva incaricato di ingaggiare un assassino. Quel mediatore, sempre un personaggio della malavita, consegnava a Julian uno scarno dossier con nome e immagini della «preda». Spettava al sicario completare il quadro informativo. Sinanaj impiegava due settimane per mappare l’«obiettivo». Tempi, abitudini, luoghi. In quella fase si appoggiava a un collaboratore (che variava ogni volta) delegato a originare la zuffa per recuperare i capelli. Dopodiché quello spariva. Il campo doveva rimanere libero per il sicario. Lui, l’arma e un cellulare con cui fotografare la vittima, offrire una prova inequivocabile al mediatore (e al cliente-committente) e intascare l’ultima tranche del compenso. Il prezzo d’un delitto variava tra i 30 mila e i 40 mila euro e scendeva sotto i 10 mila in caso di uso di esplosivo. Il sicario sembrava infallibile. Non s’è mai tradito.
A tradirlo è stato uno di quei collaboratori pescati fra i balordi. Ha fatto il suo nome dopo che la polizia, impegnata su altre indagini, l’aveva fermato. Nel quartiere di Valona (ultimo domicilio), i vicini hanno parlato di Sinanaj come di un tranquillo insospettabile. La biografia del sicario è in massima parte ancora da scrivere. Il killer custodisce segreti che incrociano criminalità, famiglie, affari, poteri. In casa, insieme a un arsenale, c’era un’agenda. Sulla prima pagina Julian aveva scritto: «Non parlare con nessuno di quello che fai e come lo fai. Ti possono uccidere per un niente».