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 2018  aprile 15 Domenica calendario

La vitalissima noia di Byron, eroe (poeta) dei due mondi

Quando, il 14 maggio 1824, arrivò a Londra, con 25 giorni di ritardo, la notizia che Byron era morto in Grecia, a Missolungi – racconta, con bella intuizione, Ottavio Fatica nella postfazione a Un vaso d’alabastro illuminato dall’interno (Adelphi), la raccolta dei Diari che il poeta aveva tenuto a intermittenza dal 1813 a poco prima della sua fine, avvenuta appunto, dopo un attacco convulsivo e una dolorosa febbre reumatica, il 19 aprile – la reazione fu simile a quella che duemila anni prima, stando al racconto di Plutarco, si diffuse fra le isole e lungo le coste del Mediterraneo, allorché un marinaio riferì del grido misterioso: «Il dio Pan è morto!» che, proveniente da terra, aveva udito. L’Inghilterra era attonita, sgomenta. E ancora più sgomenta fu quando, il 12 luglio, nel mezzo di una folla immensa, si vide avanzare in Oxford Street il carro funebre che trasportava le sue spoglie mortali. Dietro, c’erano 3 o 4 carrozze occupate. Dietro a quelle ce n’erano altre 47, inviate dall’aristocrazia britannica: splendide e vuote. 
Byron non era un dio né un semidio, pur essendo venerato come tale. Era, però, il grande Poeta noto non solo in Inghilterra e in Europa bensì nel mondo, che col Child Harold, il Don Juan e il Corsair (10 mila copie vendute il primo giorno), coi sui ritmi precipitosi, il suo tono ilare e lieve, la passione e il disincanto, le maschere velate dietro alle quali i lettori identificavano lui e loro stessi, aveva saputo toccare le corde di tutti; il ragazzino che a 10 anni era già Pari del Regno e a 21 si insediava nella camera dei Lord; il conquistatore inesausto della bellezza sia maschile che femminile; l’irregolare e il vizioso; il frequentatore delle bische e dei salotti più ambiti della nobiltà londinese; l’ateo e il cospiratore sistematico contro le leggi e il governo che in una satira pubblicata sul «Morning Post» veniva paragonato (a causa del difetto al piede che lo faceva zoppicare) al Riccardo III di Shakespeare, «deforme nella mente e nel corpo»; il reduce dal Grand Tour che a nuoto aveva attraversato l’Ellesponto; lo sfrontato che aveva eretto a suo idolo Napoleone, al quale imputava soltanto l’errore di aver sposato la «labbruta e ottusa chioccia autrichenne»; l’«orco solitario» tempestato di biglietti d’invito da Madame de Staël; l’uomo che poteva ingozzarsi di cibo, bere 3 bottiglie di Bordeaux una dopo l’altra e stare 48 ore a tè e biscotti. Ora, quell’uomo che della sua vita aveva fatto un mito, non c’era più. E il vuoto che lasciava, lo stesso delle 47 carrozze che seguivano la bara, possiamo immaginarlo.
Con quale stupore, con quale intima affezione e vicinanza, leggiamo dunque questi Diari ai quali, all’età di 25 anni, senza alcuna maschera, senza menzogne, Byron cominciò ad affidare i propri pensieri, le proprie emozioni, e la propria memoria. Ecco Mary Duff, la bambina di cui George si innamora quando è ancora in Scozia: lei riesce a fargli perdere la ragione soltanto se siedono uno accanto all’altra, o passeggiano in giardino. Ecco Margaret Parker, sua cugina, di cui s’innamora a 12 anni: ha occhi scuri, lunghe ciglia, il volto e il corpo di una statua greca. Di lei scrive: «Non ricordo nulla che possa competere con la bellezza trasparente di mia cugina, o con la soavità del suo temperamento». Dunque, se è vero che «nessuno vorrebbe rivivere la propria vita, ma ci sono momenti nella vita per ritrovare i quali si darebbe in cambio il resto della vita», dobbiamo o non dobbiamo credere che quell’amore infantile, questa bellezza trasparente, nel cuore del futuro Don Giovanni (come accadrà a Humbert Humbert, il protagonista di Lolita ) hanno lasciato un marchio incancellabile?
George – oltre alla fantasia, che soddisfa leggendo ininterrottamente, e di tutto – ha un cuore grande, ma fragile, esposto alla tragedia inaccettabile della perdita, alla precarietà del tempo. A Cambridge, appena varca il cortile del Trinity College, ha la sensazione che considera fra le più gravi e letali della sua vita: quella di non essere più un ragazzo. Cerca di combatterla tuffandosi nel libertinaggio dell’epoca. Ma lo fa con disgusto. Laddove è una passione vera, incandescente, quella che nutre per il giovane John Edleston che canta nel coro; mentre le cavalcate insieme all’amico Edward Noel Long, i temerari tuffi nel fiume, i pomeriggi trascorsi a discutere di Milton, o ad ascoltarlo suonare il violoncello (e da bere solo acqua di seltz), sono una delizia.
Dopo Cambridge, viene Londra. George fa debiti. Si abbandona a ogni tipo di eccessi. Intanto, sono uscite, in forma privata, le sue prime poesie. La Edinburgh Review le stronca. Lui risponde ai critici con un poema satirico intitolato English Bards and Scotch Reviewers e, senza alcun entusiasmo, prende il suo posto in parlamento. Parte per il Gran Tour. Torna in Inghilterra. Quando il suo editore John Murray pubblica i primi due canti di Child Harold, diventa immediatamente una celebrità. Non c’è salone che non gli apra le sue porte; che tutti lo cercano; che è socio dei più importanti club londinesi, compreso quello della boxe. Lui va ai ricevimenti nei quali corteggia ed è corteggiato, ma il suo intimo desiderio è quello di rimanere a casa a leggere. Beve fino a ubriacarsi ma il suo vero desiderio è quello di stare a tè e biscotti. Dal palco del Covent Garden, che presto ospiterà i suoi drammi, ammira le dame ingioiellate, le «meretrici d’alto bordo» ma ha uno strappo nel cuore quando Lady Stafford gli presenta la figlia, perché immediatamente si rende conto che si nasconde un’anima, dietro quella incantevole «ritrosia d’antilope». Non s’innamora, non vuole, perché teme di essere geloso. Soprattutto è indifferente. Pigro. Troppo pigro per spararsi. E si annoia terribilmente.
Un giorno, con sua moglie, la giovane ereditiera Annabelle Millbanke, sposata senza «un briciolo d’amore» da parte di entrambi (hanno avuto una bambina, che lui ha chiamato Augusta, come la sorellastra con la quale ha intrattenuto un rapporto incestuoso, e si sono separati dopo un anno) parla di questo fatto strano: della malinconia che pervade le sue pagine, in contrasto con l’allegria della sua persona (fatto che non soltanto nei poeti è frequente). Annabelle, donna intelligente e sofisticata, glielo conferma: «Tu – gli dice – in fondo all’animo sei il più malinconico degli uomini, e specie quando ti mostri più allegro».
La malinconia è quel sentimento «amaro» che di colpo sorge al culmine della felicità, come ha scritto Lucrezio. Non c’è certezza di un Dio creatore e di una vita futura (anonima o individuale?) che possa sanarlo. Tantomeno di una resurrezione del corpo, perché se il corpo è questo sarebbe una punizione. Dunque, l’unica cosa da fare è provare a sottrarre noi stessi. Ad annullarci. Oppure a sfiancarlo, il corpo: nelle bettole, tirando pugni, nuotando, scrivendo «alla brava», a rotta di collo.