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 2018  aprile 15 Domenica calendario

E Assad va in ufficio con la valigetta. La normalità del tiranno pronto a tutto

GAZA Alla guida dell’utilitaria giapponese indossa gli stessi occhiali da aviatore che portava sempre il padre Hafez, passati di generazione in generazione assieme ai baffetti. Bashar Assad viaggia sulla strada da Damasco verso la periferia orientale che qualche giorno prima è stata percorsa dai suoi blindati, «liberata e ripulita», vuole dimostrare ai siriani che i sette anni di guerra, i milioni di profughi, gli oltre 500 mila morti (le Nazioni Unite hanno smesso di contarli), sono sorpassati, un incubo da guardare nello specchietto retrovisore. 
Nel video – girato come un selfie autoritario e diffuso dal regime alla fine di marzo – il presidente trasmette calma: «Da qui non si poteva passare perché i cecchini sparavano, adesso abbiamo riunito queste aree del Paese». La stessa normalità da travet della repressione emanata nel filmato reso pubblico dopo che i missili americani-francesi-britannici hanno colpito la capitale: entra nel palazzo presidenziale al mattino con in mano la valigetta piena di documenti, anche questa deve sembrare una delle tante giornate in ufficio, un passo dopo l’altro su per i gradini di marmo, verso i saloni dove non avrebbe dovuto e voluto sedere. 
Il prescelto dal capostipite per raccogliere l’eredità del dominio instaurato sulla Siria nel 1971 era il primogenito Basil, un piano dinastico andato in rottami come la Mercedes del figlio prediletto, appallottolata in una notte del 1994 sulla tangenziale attorno a Damasco. Bashar non era neppure la seconda scelta, alla morte di Hafez nel giugno del 2000 la famiglia non lo avrebbe richiamato da Londra e dagli studi di Oftalmologia, se il fratello Maher – di due anni più giovane – non fosse stato troppo feroce perfino per un clan che ha fatto della brutalità il metodo di controllo. 
Assieme alla moglie Alma, cresciuta ed educata in Gran Bretagna, il neopresidente sembra rappresentare il cambiamento, i siriani ci sperano, promette le riforme e qualcuna ne realizza, l’economia bloccata dalle scelte dirigiste e stataliste del partito-governo (il Baath) comincia a smuoversi. Fino al marzo del 2011, quando la popolazione – ispirata dalle rivolte in Tunisia, Egitto, Libia – scende in strada per chiedere di più: più libertà, più protezione contro gli abusi della polizia politica. A Bashar – che ha sempre ripetuto di aver scelto Chirurgia Oculistica «perché è molto precisa, non è quasi mai un’emergenza e si sparge poco sangue» – tocca affrontare l’emergenza della ribellione. 
L’impulsività bellicosa di Maher torna utile: il padre non l’ha voluto nominare successore ma l’ha addestrato per essere un comandante, gli ha affidato la Guardia repubblicana e la Quarta divisione corazzata, le truppe scelte composte per la maggior parte da alauiti, la setta sciita minoritaria a cui appartengono gli Assad. Sono i soldati che sparano fin dai primi cortei pacifici, circondano e assediano le città o i quartieri dove gli insorti (soprattutto sunniti) non accettano di tornare a sottomettersi, di tornare alla paura – di protestare, di parlare, di sperare. Nel circolo ristretto di ufficiali e affaristi che coordina la repressione Maher è ancora oggi la figura più importante dopo il presidente. 
È l’11 dicembre del 2011 quando Ehud Barak predice: «I giorni di Bashar Assad sono contati». Da allora il ministro della Difesa israeliano è andato in pensione e si è lasciato crescere la barba, il dittatore siriano resta al potere e non si è tagliato i baffi. L’abbraccio militare dell’Iran e di Vladmir Putin ha impedito che il dittatore facesse la stessa fine dell’egiziano Hosni Mubarak o del libico Muammar Gheddafi, che gli ormai 47 anni al potere degli Assad fossero inghiottiti dal caos di una rivolta diventata armata, dove le brigate fondamentaliste – e in una fase gli sgozzatori dello Stato Islamico – hanno preso il sopravvento sui gruppi moderati. 
L’abbraccio reale dello Zar al suo protetto – nella residenza di Sochi sul Mar Nero, novembre dello scorso anno – ha stretto in un’immagine ufficiale l’annuncio della «vittoria contro i terroristi dello Stato Islamico». Sconfiggere il Califfato: così la propaganda ha giustificato l’intervento di Mosca nell’ottobre 2015 e il supporto armato delle milizie sciite addestrate e finanziate dagli ayatollah, come l’Hezbollah libanese. Da allora, dalla «vittoria», i jet russi hanno continuato a bombardare e gli elicotteri del regime non hanno smesso di sganciare i barili bomba sui sobborghi di Damasco che ancora resistono. Qui le ruote delle auto bruciate sono la versione artigianale di quella «no-fly zone» promessa e mai mantenuta dalle potenze internazionali. Il fumo nero per provare a confondere i piloti, stratagemmi casalinghi in quartieri dove le case sono ormai macerie.