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 2018  marzo 20 Martedì calendario

Cervelli che (a volte) ritornano. Rapporto Ue: in Italia più rientri che partenze

Nell’Italia dei “cervelli” con la valigia perennemente in mano è di per sé una good news l’esistenza di una «mobilità di ritorno» dei ricercatori. Se poi il saldo tra gli ingressi di capitale umano ad alto valore aggiunto e le uscite risulta addirittura positivo la buona notizia diventa doppia. E mostra una luce in fondo al tunnel per un Paese che continua a occupare il penultimo posto nella classifica europea per numero di laureati. Ad accenderla è un rapporto del Joint Research Center (Jrc) della Commissione europea che prende in esame gli spostamenti di oltre 6mila studiosi europei. E che ci posiziona più o meno sullo stesso livello dei nostri principali competitor. Una sorpresa forse. E anche uno stimolo a rimuovere le pastoie burocratiche che, prima ancora della scarsità di risorse, ci rendono da sempre scarsamente “attrattivi”. Sia per i nostri giovani costretti a emigrare al termine degli studi sia per gli stranieri potenzialmente interessati a trasferirsi da noi.
Più ritorni che partenze
Che il tema della fuga dei cervelli sia cruciale lo testimoniano i numeri. Uno su tutti: i 14 miliardi di Pil che, secondo il Centro Studi Confindustria (CsC), ogni anno rischiamo di perdere per gli studenti che si formano nelle nostre università e vanno a lavorare all’estero. Un warning che i partiti non sembrano aver raccolto, avendo ignorato il tema in campagna elettorale. E che si spera torni d’attualità dopo la formazione del nuovo governo.
Nel mettere a punto una strategia che ci trasformi da esportatori in importatori di capitale umano potrebbe tornare utile buttare un occhio al rapporto del Jrc. Il paper dedica un intero capitolo alla mobilità di 6.500 ricercatori. Da cui emerge un tasso di spostamento del 38,7% per la Ue a 28. Con il suo 45% l’Italia si piazza più o meno a metà classifica. E lì rimane anche se si passa ad analizzare il dettaglio dei flussi di entrata e di uscita. Dei 409 nostri connazionali presi in considerazione quasi uno su quattro (il 24,4%) ha scelto infatti di rientrare. A fronte del 20,5% di partenti. Numeri che ci pongono, nel primo caso, al di sotto della media europea (che è del 26%) e, nel secondo, al di sopra rispetto al 12,6% complessivo.
Lo scenario non muta, anzi si rafforza, se il campione viene raggruppato per Paese di conseguimento del dottorato anziché per nazionalità. In questo caso i ritorni lungo la penisola sono stati il 23,6% contro il 13,6% di partenze. Laddove la media europea è, rispettivamente, del 16,8% e del 17,2 per cento.
La mera analisi quantitativa dice poco. Mai come in questo caso serve un approfondimento qualitativo. Che parta dalla testa della classifica. I primi quattro Paesi per rientri – Lussemburgo (88,9%), Islanda (88,2%), Cipro(81,4%), Malta (77,9%) – sono accomunati dall’essere piccoli e dall’avere un basso numero di ricercatori complessivi che nella maggior parte dei casi si specializzano all’estero e poi ritornano. Tanto è vero che per tutti e quattro non si registrano uscite dopo il dottorato. Una forbice netta tra rientri e partenze caratterizza anche la “quartina” posizionata alle loro spalle: Grecia, Irlanda, Estonia e Turchia. Arriviamo così ai nostri competitor tradizionali. Ad accomunarli è una percentuale di ritorni inferiori alle partenze. Come testimonia innanzitutto la Germania e il suo 14% di ingressi e 60% di uscite, dirette in particolare verso la Svizzera. E degni di nota sono anche i casi di Regno Unito (fermo al 14% e al 24%) e Francia (17% in e 20% out).
I canali di attrazione
Un ulteriore incentivo a rafforzare gli strumenti che consentano ai nostri cervelli di rientrare arriva dai risultati dei bandi dell’European research council (Erc). A dicembre 2017 erano 437 i grant attribuiti in Italia, per un totale di circa 706 milioni di euro. Di questi 437, 402 sono stati vinti da ricercatori italiani. Mentre sono 335 i nostri connazionali che se ne sono aggiudicato uno all’estero.
I bandi Erc sono solo uno dei canali utilizzabili dagli studiosi fuggiti oltreconfine per tornare in Italia. Nel complesso sono 804 le chiamate dirette che il Miur ha autorizzato dal 2009 a oggi. Oltre a 142 grants dell’Erc, il prospetto include 308 chiamate dirette di studiosi impegnati all’estero, 13 per «chiara fama», 199 per effetto dei bandi Montalcini (a cui si aggiungono altre 79 chiamate dirette sempre sulle call Montalcini) e 178 da altri programmi di ricerca (Firb, Sir, eccetera). E che non si tratti di numeri sufficienti lo ha ricordato qualche mese fa anche la Corte dei conti nel referto sul sistema universitario italiano che ha fatto il “tagliando” alla legge Gelmini del 2010. Anche perché le 500 assunzioni dall’estero previste dalle cattedre “Giulio Natta” introdotte dalla legge di bilancio 2016 non sono mai state bandite. E, come se non bastasse, nel frattempo sono state definanziate di anno in anno.
Il bonus fiscale bloccato
Sempre nell’ottica degli strumenti di attrazione rimasti sulla carta un accenno lo merita infine l’incentivo previsto dal decreto fiscale dell’ottobre scorso. Era atteso a inizio febbraio il provvedimento attuativo delle Entrate che serve a rimborsare le maggiori imposte versate dai lavoratori (laureati e no) passati dalle norme pro-rientro in Italia del 2010 (legge 238) a quelle del 2015 (Dlgs 147). Il passaggio dal primo regime, dei “controesodati”, al secondo, degli “impatriati”, ha prodotto un brusco aumento dell’imponibile. Optare per le regole 2015 ha portato a conguagli di migliaia di euro. Un pasticcio a cui il Dl 148 del 2017 prova a porre rimedio. Peccato che l’atto amministrativo di attuazione – tra riorganizzazione della macchina e stallo pre e post-elettorale – non sia ancora uscito dai cassetti dell’amministrazione finanziaria. Una storia, questa sì, tipicamente italiana.