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 2018  marzo 12 Lunedì calendario

Ritratto di Enrico Letta

   Come Charles de Gaulle 65 anni fa, il cinquantunenne Enrico Letta gioca la carta della ritrosia per farsi rimpiangere. Esautorato da una congiura di palazzo al decimo mese di guida del paese (aprile 2013-febbraio 2014), è partito per l’esilio e non si è fatto più vedere. Al pari del generale che si isolò nelle Ardenne prima del rientro trionfante, anche Enrico attende da Parigi che l’ingrata patria ne implori il ritorno.  Prima di vedere se ci sono speranze che il piano si realizzi esaminiamo da vicino il nostro uomo.
  Enrico divenne premier in modo fortunoso. Dopo le elezioni del 2013, il suo capo partito, il piddino Pierluigi Bersani, inanellò una serqua di stupidaggini e si incartò. Non riuscendo lui a fare il governo, Giorgio Napolitano, esasperato, affidò il compito al nipote di Gianni Letta. Allora Enrico era ancora il nipote sbiadito del grande zio. Eppure, un quindicennio prima, era partito in quarta.
   Aveva 32 anni quando, nel governo D’Alema I (1998-1999), gli era stato affidato il dicastero delle politiche comunitarie. Mai, nella repubblica, si era visto un ministro così giovane (il record passò nel 2008 alla trentunenne Giorgia Meloni). Subito dopo, con il D’Alema II e il governo Amato II, Letta divenne ministro dell’industria, dicastero possente che fece di lui un politico di belle speranze. Poi però, come un germoglio su cui passi la gelata, si inaridì tornando all’anonimato, tranne un biennio come sottosegretario alla presidenza nel Prodi II (2006-2008).
   Dunque, diventato premier per caso, Enrico, ingranò la marcia lento pede. Consapevole di essere tra gli uomini più preparati del paese, pensava di avere tempi lunghi per trasformarlo e farne il gioiellino d’Europa. L’Ue è per lui, come vedremo, l’alfa e l’omega. Si prese amabilmente in giro dicendo: “Questo mio governo non è il mio governo ideale. Né io sono il mio presidente del consiglio ideale”. Ma lo faceva col tono di chi è convinto del contrario. Poi abolì l’Imu, come aveva promesso a Silvio Berlusconi suo alleato. Sembrandogli per il momento abbastanza, organizzò un fine settima nell’abbazia di Spineto, in val di Chiana, con l’intero governo. Servirà a “fare spogliatoio”, disse (è gran tifoso del Milan) e all’amalgama della squadra per gli anni a venire. Il 3 ottobre ci fu però davanti a Lampedusa un naufragio con 300 vittime africane. Letta, che è persona civile con un passato nell’Azione cattolica, restò di sasso. Delle molte considerazioni che poteva fare e decisioni che poteva prendere, optò -con l’appoggio del ministro dell’Interno, il berlusconiano, Angelino Alfano- per l’operazione Mare Nostrum, varata 15 giorni dopo. Ebbe cioè l’idea di usare la marina militare per salvare i barconi in difficoltà. Portati sul suolo italiano, gli scampati confluivano con gli immigrati traghettati dagli scafisti, giunti con le ong o sbarcati su altri mezzi in una bolgia di natanti che scorrazzavano come delfini sulla scia di baldi marinai trasformati in crocerossine.  
   Avuto il colpo di genio, il premier si apprestò all’applauso universale. Ebbe il tempo di assaporare gli elogi del Vaticano e di percepire la gratitudine dell’Ue che fosse l’Italia ad aggropparsi l’intera rosa dei venti dell’immigrazione mediterranea. Poi, come un fulmine di Giove, Matteo Renzi, twittò il fatale, “Enrico stai sereno” che sancì la fine del suo governo. Il 22 febbraio 2014, Letta, resistendo alla tentazione di sbattere il campanellino sul grugno dell’impunito, passò gelidamente le consegne.
   Per un anno, restò silente. Tuttavia, l’onta di un primo della classe addottorato alla Scuola superiore sant’Anna di Pisa, città in cui è nato, espunto da un fiorentino del contado, era intollerabile. Infatti, nel luglio del 2015, esplose. Si dimise da deputato e stracciò la tessera del Pd che lo aveva tradito.
   Nelle more, si era preparata una cuccia di lusso in Francia. Letta è impregnato di cultura francese e parla la lingua di Molière come il medesimo, avendo trascorso infanzia e adolescenza a Strasburgo dove il padre, Giorgio (fratello di Gianni), insegnava matematica. Apprendemmo così che l’università di Parigi lo aveva cooptato come docente a Sciences Po per un corso sull’Ue e i populismi e che avrebbe collaborato con l’ateneo per tutto il tempo desiderato.
   In questo nuovo ambiente, Enrico ha liberato la piena del suo europeismo. Ne è emerso un pasdaran. Nonostante fosse circondato dal noto sciovinismo gallico, si è scagliato contro le nazioni con verve da nouveau philosphe. In dotti articoli su Le Monde, ha sostenuto che “la sovranità o sarà europea o scompariremo” esponendo la sua ricetta: un super presidente dell’Ue eletto dai cittadini e un super ministro delle Finanze che, dall’Estonia al Portogallo, passando per l’Italia, decida delle nostre tasche. Condendo il tutto con l’elogio dell’immigrazione e della sua creatura, Mare Nostrum. “Mi hanno accusato -ha detto in un’intervista dall’esilio- di avere incentivato gli ingressi. Però, quando l’operazione è stata revocata, i rifugiati sono aumentati. Dunque, era falso”. Ignoro se davvero non capisca o faccia il tonto, ma il punto è questo: una volta messo in moto un meccanismo di accoglienza garantito da una scorta militare, si innesca una transumanza che, Mare nostrum o no, sfugge di mano. Neppure il confronto col paese dove vive e che respinge con durezza i clandestini lo ha mai indotto a pensare di avere danneggiato l’Italia di cui fu premier. Infine, nell’unico intervento sulla recente campagna elettorale ha profetato un’auspicabile vittoria del suo amico Paolo Gentiloni.
    Il meno che si possa dire è che non è un sensitivo. Sarà che abita a Parigi ma dell’Italia non capisce un tubo. Ha fatto meglio il suo concittadino, Emmanuel Macron che, commentando il crollo elettorale del duo immigrazionista Renzi-Gentiloni, ha detto più o meno: “L’Italia ha reagito alla forte pressione migratoria”. Ha colto il punto. Lui sì, Letta no.
   Torniamo al confronto con De Gaulle da cui siamo partiti. Enrico è il prodotto raffinato di una famiglia in vista da 3 generazioni. Il capostipite, nonno Vincenzo, fu stimato legale di Avezzano. Vennero poi i suoi 8 figli, tra cui il secondogenito, Gianni, principale consigliere di Berlusconi, detto Zolletta per 2 ragioni: giovane dipendente di uno zuccherificio, sposò la figlia del titolare; è di suo, moglie a parte, un produttore industriale di melassa salameccosa con cui appiana ogni sorta di divergenze.
   Zolletta è stato il modello di Enrico che è, però, assai più sofisticato dello zio. Coltissimo, elitario, cosmopolita, amante delle mescolanze, Letta detesta le frontiere e giudica le nazioni vecchie cose di pessimo gusto. Il fatto che siano vive e vegete, parendogli barbarie, neppure lo contempla. Nei libri che legge non c’è scritto. Diciamo che è così concettuale che non vede la realtà. In versione raffinata, è come Renzi, Gentiloni, Boldrini & co. che degli italiani non capiscono niente, come s’è visto dai risultati elettorali. Ma allora se di politici sordi e ottusi ne abbiamo già tanti in casa, chi mai avrà nostalgia di Letta che è della stessa pasta e vive pure all’estero? Ecco perché, caro Enrico, non sarà mai rimpianto e invocato come De Gaulle. Lui era unico, lei un prodotto seriale.