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 2018  febbraio 23 Venerdì calendario

Boris Pahor: «Ho 104 anni ma non penso mai alla vecchiaia

Avere 104 anni e non sentirli. «O meglio – dice – ogni volta che mi prende un malanno per un attimo penso all’età che avanza. Poi passo oltre. L’espressione “sono diventato vecchio” per me non esiste». L’incontro con Boris Pahor nella villetta dove abita, affacciata sul golfo di Trieste, non è il primo. Ma questa volta è speciale. Sorprendente. Occorre persuadere lo scrittore ad affrontare il tema della vecchiaia, distogliendolo dagli argomenti – importanti e drammatici – che hanno segnato la sua lunghissima vita. Spicca l’azzurro del maglioncino che indossa mentre parla seduto di fronte a noi. Gagliardo. «Ti dedico un’ora e non di più – avverte —. Devo cenare in anticipo, poi vengono a prendermi per andare al Teatro Rossetti. Proiettano il film-documentario di Elisabetta Sgarbi, “L’altrove più vicino”. Dentro c’è anche la lettura di brani delle mie opere». Sorseggia acqua da una bottiglietta, di tanto in tanto: «Prescrizione medica, a causa di un’ernia iatale. Sia chiaro, non sono amico dei dottori. Tendenzialmente, mi curo da solo. Il mio ricostituente? Latte e zucchero. Se non c’è fresco, va bene condensato. Questo alimento mi ha aiutato quando non avevo di che nutrirmi». La badante porta il caffè per entrambi. Nelle parole di Pahor lei «è la gentile signora che si occupa di me», 24 ore su 24, soltanto da pochi mesi. «Mi sono deciso a questo passo dopo una caduta in casa», spiega. Il grande vecchio, vedovo dal 2009, in seguito alla morte della moglie Rada («era una donna bella e spumeggiante»), abitava da solo. Si faceva bastare una colf saltuaria per le faccende domestiche. 
L’esistenza centenaria di Pahor è un romanzo. Sloveno di cittadinanza italiana, nato a Trieste quando ancora dominava l’impero asburgico, ha vissuto sulla sua pelle i più grandi orrori del passato: la prima guerra mondiale, la repressione fascista nella Venezia Giulia, la seconda guerra mondiale, l’esperienza nei campi di concentramento nazisti (aveva collaborato alla resistenza antifascista slovena); infine, l’ostracismo comunista all’epoca della Jugoslavia di Tito. Scrittore prolifico, tradotto in tutto il mondo (più volte candidato al Nobel), la sua opera più famosa è “Necropoli”, viaggio nella memoria dei terribili giorni passati nel lager di Natzweiler-Struthof. Scritta in sloveno nel 1967 (la lingua madre è una precisa scelta di appartenenza, Pahor si laureò a Padova in Letteratura Italiana), in primis fu tradotta e apprezzata in Francia. Nel nostro Paese invece il testo fu pubblicato soltanto nel 2008. Da allora, la notorietà dello scrittore è andata crescendo. 
Il grande vecchio sorride: «Non ti vedo bene, ma ascolto le domande». Porta gli occhiali, ma ha perso la vista dell’occhio destro. Gliene rimane uno buono. Così può ancora battere sui tasti della macchina per scrivere. Sentenzia: «Mai smettere di coltivare i propri interessi, se si hanno le forze. Ad ogni età. Viaggiare o collezionare francobolli, non importa; occorre avere cura per ciò che si desidera fare. Io lavoro ancora». Un libro? «Sì, un libro. Complicato. Mi lasciano perplesso alcune opinioni dell’amico Alojz Rebula, che ora sembra aver cambiato orientamento. È una questione complessa. Riguarda il ruolo svolto dai cristiano-sociali durante la seconda guerra mondiale e la loro partecipazione alla lotta di liberazione. Nel suo ultimo saggio ‘Korintski steber’(‘La colonna corinzia’), Rebula ne rivaluta l’azione. Devo raccontare come andarono veramente le cose. L’idea è di costruire il libro in forma di dialogo. Ci sto provando». Quante ore di attività al giorno? «Scrivo dalle 9 alle 12 e dalle 16 alle 18. Nel pomeriggio mi prendo un paio d’ore di riposo. Abitudine recente». 
La dieta di un centenario? «Molto semplice. La mattina prendo il caffelatte con pane, burro e marmellata. Per il resto, nei mie pasti ci sono i passati di varie verdure, un po’ di formaggio e un po’ prosciutto, frutta di stagione». Torna sull’ernia iatale: «È un disturbo che interessa stomaco ed esofago. Si è acuito, la diagnosi risale ai tempi del sanatorio di Parigi, dove finii, tubercolotico, dopo il campo di concentramento». Già, dal lager all’ospedale. Tempra forte, riuscì a guarire, lo aiutarono a riprendersi anche le amorevoli attenzioni di un’infermiera francese... Fra i due più che una simpatia. Vero? Sorride, Pahor: «Il nostro fu un grande sentimento; importante, contrastato. Impossibile». (La relazione con Arlette è scolpita nelle pagine di «Una primavera difficile»). 
L’amore? «L’amore per le donne ha occupato molto spazio nella mia vita – dice —. Ho scritto molte lettere d’amore. Confesso che sono per l’amore libero e che non sono stato un campione di fedeltà, pur volendo molto bene a mia moglie». «Se fosse stato per me – continua – non mi sarei sposato. Detesto i vincoli, la libertà è tutto. D’altronde, Rada proveniva da una famiglia molto religiosa – uno zio paterno, Stanko Premrl, musicista, era un monsignore – e, alla fine, accettai il matrimonio. Civile, però». Come si ama da vecchi? «Si ama, si ama...I sentimenti non hanno età. Fisicamente è un po’ diverso, ovvio. Oggi ci si può aiutare con farmaci mirati. Io sono favorevole, con prudenza. C’è il rischio di effetti collaterali... meglio consultare il medico». Lei...«Se li ho provati? No, ma posso dire di aver fatto sesso attivo fino a 85 anni». Sorride, sornione. «Nelle case di riposo si parla d’amore, le carezze restano anche da vecchi – osserva – Non ho certo rinunciato ad accarezzare un corpo femminile». L’ultima volta? «È successo un anno fa… una bella signora…». «Lei era d’accordo», precisa. Boris Pahor ha due figli, Maja («abita qui vicino, la vedo spesso»)e Adrian. Due i nipoti. Non è il tipo di nonno che ti aspetti. Un irregolare. «Ormai sono adulti, li incontro volentieri, quando vengono a trovarmi – racconta – Non mi va, però, di perdermi in smancerie affettuose, ho altro da fare. Del resto, non sono stato neppure un padre esemplare. Non andavo a prendere i bambini a scuola, gli dedicavo poco tempo. Mia moglie me lo rimproverava». Ha un’anima panteista, il grande vecchio. Lo dice guardando il mare all’orizzonte. Cita volentieri Spinoza (“Deus sive natura”), il filosofo di riferimento. Religioso ma non credente, la sua forma di ateismo sembra essere frutto dell’esperienza nel campo di concentramento. Paura della morte? «Mi dispiace lasciare la vita», risponde. «Soprattutto non vorrei perdere il ben dell’intelletto», chiude. Orologio alla mano, un’ora esatta di conversazione. Siamo ai saluti. Poco dopo, Pahor telefona: «Grazie, mi scuso se ti ho messo fretta».