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 2018  febbraio 23 Venerdì calendario

La dubbia filantropia di Mark Zuckerberg

Facebook, come abbiamo raccontato qualche settimana fa, ha brevettato un metodo per suddividere i suoi utenti tra ricchi, poveri e ceto medio senza disporre direttamente dei dati relativi a reddito e patrimonio di ciascuno, ma deducendo il tenore di vita da altre informazioni catturate dal suo sterminato database : da quelle sui consumi al livello di istruzione. Informazioni che servono a offrire alle aziende sue clienti una migliore profilazione dei destinatari di ogni messaggio pubblicitario che passa per la piattaforma di Zuckerberg che, così, diventa (insieme a quelle di Google) sempre più essenziale per gli inserzionisti. 
Ma ora trapela che Facebook i suoi dati sul tenore di vita degli americani non li colleziona solo per venderli: li dà anche, e gratis, all’economista della Stanford University Raj Chetty per contribuire ai suoi studi sulle diseguaglianze economiche negli Stati Uniti. Gesto apprezzabile, visto che quello dell’enorme disparità nella distribuzione del reddito è il più grosso dei problemi sociali che affliggono il Paese più ricco del mondo. I dati di Facebook faranno fare grandi passi avanti al lavoro scientifico di Chetty. 
L’unica perplessità riguarda le motivazioni di Mark Zuckerberg: il fondatore di Facebook cerca di operare come filantropo, oltre che come imprenditore, e deve ancora farsi perdonare la sottovalutazione del problema delle fake news transitate dalla sua rete sociale durante la campagna elettorale del 2016. Comprensibile che cerchi di recuperare terreno anche mostrandosi più sensibile sui temi sociali. Gli serve per preparare una discesa in politica in prima persona o un ruolo più attivo in questo campo? È solo un’illazione. Qualche preoccupazione in più nasce da un altro dato: Facebook, come gli altri giganti della Silicon Valley, è uno dei principali imputati per l’esplosione delle diseguaglianze: ricchezze enormi per pochissimi, pochi posti di lavori creati a fronte di un fatturato gigantesco. La fotografia dell’estate scorsa era quella di un’azienda che valeva in Borsa 520 miliardi di dollari, poco meno di General Electric, Ibm, Ford e AT&T, messi insieme. Ma aveva solo 21 mila dipendenti a fronte del milione e 100 mila stipendi pagati da questi giganti. L’immagine della volpe messa a guardia del pollaio sa di antico nell’era delle tecnologie digitali. Ma forse è meglio non accantonarla del tutto.