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 2018  febbraio 12 Lunedì calendario

‘IL GRANDE ERRORE DELLA MIA CARRIERA FU DIRE DI NO AL BIS DI SANREMO’ - CHIAMBRETTI PIANGE SUL FESTIVAL VERSATO: ‘LA PRIMA EDIZIONE CON MIKE E VALERIA MARINI ANDÒ BENISSIMO, E IO RISPOSI CON UNA FRASE STUPIDAMENTE CHIC: ‘IL FESTIVAL È COME IL MILITARE, SI FA UNA VOLTA SOLA. POI TORNAI 11 ANNI DOPO CON BAUDO E ANDÒ MALE. LA PRIMA VOLTA MI INNAMORAI SUL PALCO DI…’ (VIDEO) -

Lo smoking bianco, le scarpe da ginnastica, l’imbracatura. Con due ali sulle spalle, Piero Chiambretti da Torino aprì l’edizione del 1997 del Festival della canzone guardando in faccia, alla stessa altezza, gli spettatori della piccionaia. «La classe operaia va in paradiso, sono veramente al settimo cielo, sono attaccato a un filo perché presentare non è semplice. In questo Sanremo, il primo post Baudo parlandone da vivo, io sarò un angelo buono».

Non andò esattamente così e la natura multiforme di Chiambretti Piero da Torino, leva televisiva del ‘56, provocazione, autoironia, sferzate di perfidia e sperimentalismo in una sola complessa figura, proiettarono sul piccolo schermo schegge di televisione capaci di ferire una liturgia fino ad allora officiata con paramenti tradizionali.

«Alla tradizione, nonostante i dirigenti fossero perplessi, guardai anch’io» ricorda oggi, ventuno anni dopo, con memoria di ferro, l’archivista Chiambretti. «Si arrivava dall’epoca di Pippo Baudo, capace di riesumare un Festival che negli anni ‘80 era caduto in disgrazia. Pippo, per me una sorta di fratello, era il depositario del quinto segreto di Sanremo e dopo aver condotto il Festival per lungo tempo riabilitandolo agli occhi dell’opinione pubblica e averne fatto un grande spettacolo, aveva abdicato tutt’a un tratto dal ruolo di conduttore per non so quale ragione. In Viale Mazzini si sparse il panico e nel vuoto pneumatico di idee, reso più angoscioso dalla sorpresa del forfait di Pippo, in Rai si misero al lavoro per cercare rapidamente un’alternativa».



L’alternativa era lei. «Mi contattarono. All’epoca lavoravo a Rai Tre. La rete pirata del servizio pubblico, resa epica da Angelo Guglielmi. Angelo si era appena defilato, ma sullo sfondo restava la sua impronta e nei posti chiave le persone che lui stesso aveva scelto. Chiamarmi alla conduzione significava imprimere una svolta radicale, innovare, cambiare strada rispetto a ciò che si era visto fino ad allora. Io invece, come le dicevo prima, decisi di tentare una commistione tra innovazione e tradizione: non tentare la conduzione in solitaria- come pure mi era stato chiesto di fare- ma rilanciare convocando al mio fianco un’icona della tv. Pensai prima a Raffaella Carrà che si negò per ragioni personali e poi al grande Mike, l’eroe di tante edizioni sanremesi del passato. Con Mario Maffucci, storico dirigente della Rai, andai in avanscoperta milanese per strappare il sì a Mediaset e a Bongiorno».

Come si sviluppò la trattativa? «Mediaset diede il via libera senza problemi e Mike che mancava sulla tv di Stato da almeno un decennio, disse sì in cinque minuti. Fu un’edizione molto fortunata. La prima intuizione fu quella di non portare sul palco il solito canonico duetto femminile, la bruna e la bionda, il marchio di fabbrica di Pippo Baudo, ma di scegliere una sola fanciulla che, anche come peso, ne incarnasse due. Chiamammo quindi Valeria Marini, all’epoca al centro di un grandissimo interesse popolare. Il nostro terzetto creò simpatia. Eravamo veramente tre personaggi in cerca d’autore.

Tre personaggi diversissimi. Mi trascinai dietro anche l’allora portiere della Rai di Milano, Aldo Izzo, oggi purtroppo scomparso che fece il gobbista sul palcoscenico per l’intera edizione, sempre con il cappotto addosso, perché come diceva al pubblico senza muovere un solo muscolo facciale: “Ho paura che me lo freghino”. Aldo era il nostro timer vivente. Alle 23.25 aveva l’ultimo treno per tornarsene a Milano e noi cercavamo di correre per non farglielo perdere. Il treno di Izzo era un paradosso che ci aiutava a non sbrodolare, ad avere contezza dei tempi generali, a tenerci desti rispetto ad eventuali ritardi sempre possibili quando uno degli ospiti, magari per facondia, tendeva ad allungarsi».



Per ascolti e critica, il Festival andò molto bene. «Era pieno di piccole trovate che lo resero un immenso successo popolare. L’angelo sorprese tutti e la frase- tormentone: “Comunque vada sarà un successo”, ripetuta in maniera quasi ossessiva a tutti quelli che salivano sul palco, entrò nell’immaginario collettivo. I risultati mi garantirono immediatamente la riconferma per l’anno successivo, ma a quel punto, l’anomalo testardo piemontese che da sempre mi si agita dentro, mi spinse, chissà perché, a dire una frase infelice. Una frase di cui poi mi pentii amaramente».

E la frase era? «“Il Festival di Sanremo è come il servizio militare, si fa una volta sola”. Rinunciai a condurlo di nuovo e sbagliai. Fu il primo grande errore della mia carriera. Ero appena sbarcato sulla rete ammiraglia e avrei dovuto da un lato tacere e dall’altro provare a tacitare il desiderio di puntare a cose più estreme per trovare un posizionamento più stabile. Non avevano fatto forse così Baudo e poi in ordine sparso Morandi, Fabio Fazio, Carlo Conti, Paolo Bonolis e tutti gli altri? Mi proposero un lavoro, diedi quella risposta chic che credo, a ragione, non avrebbe fornito nessuno di quelli venuti dopo di me».

Ha rimpianti? «Non ho mai fatto calcoli, non ho mai avuto tessere di partito né massoniche, non ho mai coltivato l’etica del gruppo, della relazione, del rapporto di convenienza con l’agente o con il potente di turno. Ho sempre gestito malissimo i miei interessi personali e oggi avrei difficoltà a organizzare un Festival sulle mie spalle, ma nonostante mi manchino gli arnesi e so che è impossibile che riaccada, affronterei volentieri la scommessa».

Cosa ha visto del Festival edizione 2018? «Pochissimo, per non dire niente. Qualche cronaca del telegiornale, qualche frammento sul computer, poca roba. E credo che proseguirò nel digiuno anche stasera. Mi diletto diversamente, faccio altro. Ma non per snobismo. Sono stato a Sanremo tante volte e in tutte le salse, ma il Festival mi piace sentirlo in sottofondo. Magari anche alla radio, perché mi ricorda gli anni dei primi festival di quando ero bambino. Ma lo spettacolo televisivo di per sé mi interessa pochissimo oggi come oggi.

Poi è chiaro che dal ‘97 quando condussi per la prima volta al 2018 sono passati molti anni ed è cambiato veramente tutto. Tanto è vero che quando nel 2008 tornai nuovamente a condurlo con Pippo Baudo, le cose andarono in modo totalmente diverso. Pippo optò per il purismo. Non ascoltò il vento che cambiava, ignorò volontariamente l’avvento dei talent e poi dei social e quel rifiuto non restituì al Festival l’attenzione di quel pubblico che in termini di ascolto si aggiunge allo zoccolo duro festivaliero e che fa la differenza».



Gli ascolti, nel 2008, andarono male. «Vivere Sanremo da vincitori o da vinti è molto diverso. Nel ‘97 mi innamorai del primo violino, mi innamorai sul palco e l’esito del Festival e l’amore mi regalarono un anno meraviglioso. Nel 2008 invece, fin dalla prima puntata, il programma non decollò mai, ma le dico che pur essendomi trovato molto bene nei panni del vincitore in amore, non ho disprezzato l’esperienza da vinto. Quando vai male affondi insieme agli altri, ma non mi sentivo responsabile di nulla e quindi affrontai il calvario con una certa surreale allegria. Sostenevo che stessimo compiendo un disastro e al pubblico, in diretta, dicevo cose anomale: “Stateci vicino, pregate per noi, sostenete Pippo”. Per rendere plastico il fatto che non ci stesse vedendo neanche un cane feci salire sul palco una dozzina di quadrupedi veri. Giocai sulle macerie e la critica apprezzò».

Perché ci furono ascolti così bassi? «Furono compiuti errori in serie: partimmo il lunedì, interrompemmo il mercoledì per dare spazio a un’importante partita di calcio, avvenne una grave disgrazia il venerdì che allontanò l’attenzione dalle canzonette. Un complesso di cose. Però l’anno del disastro, le dico la verità, lo ricordo con grande piacere. C’erano le elezioni anche allora. C’era la par condicio. Mostrai un fotomontaggio con Baudo in divisa sovietica sostenendo che avevano ragione i detrattori, che Sanremo era a tutti gli effetti un Festival comunista. Baudo era terreo: “Questo mi fa cacciare” diceva».

A Sanremo lei andò anche come giurato. «Nella giuria di qualità, nel 2001, in un Festival condotto da Raffaella Carrà. Ero uscito frastornato e deluso dalla mia prima e unica esperienza cinematografica e avevo deciso di trasferirmi per un anno in Messico da alcuni amici a curarmi le ferite.Mi chiamò un giovane autore, oggi meno giovane ma sempre geniale, Giovanni Benincasa, che mi disse: “Perché non vieni a fare uno dei giurati della famosa, anzi famigerata giuria, di qualità?”.

Ci pensai un istante, mollai rapidamente sombrero e tortillas e nottetempo tornai a Sanremo dove tra scenografi e tecnici, conoscevo praticamente tutto. Decisi all’insaputa di Raffaella e anche di Sergio Japino di gestirmi uno spazio autonomo all’interno della giuria di qualità. Spostando cioè la mia sedia in un palchetto esterno rispetto a quello in cui si sarebbero seduti tutti gli altri allo scopo di costruire una scenografia assolutamente inaspettata».

Ovvero? «Una pizzeria napoletana che avrebbe dovuto fare da contorno a un improbabile festival della canzone napoletana all’interno del festival di Sanremo. Chiamai quindi dei cantanti neomelodici da Napoli e nella prima serata del Festival, quando Raffaella chiamò i giurati della giuria di qualità uno a uno, io non risposi all’appello. La telecamera mi cercò e mi trovò sul palchetto a fianco della giuria. Il burattinaio Piero, me medesimo, con la sua banda di figure irrituali, armava una sorta di fiction nella fiction, di Festival nel Festival, con un’aria metafisica e da teatro dell’assurdo che mi divertì molto.

Simile a quella che anni dopo, in un altro Sanremo condotto da Baudo e da Michelle Hunziker, mi spinse a organizzare un Dopo Festival in sala stampa ridisegnando completamente il luogo con una pedana scenografica. A Sanremo mi sono divertito. Anche a inventare. Nel 2008 ad esempio, in omaggio alla mia passione cinephile, decisi di andare a vedere quali fossero i veri spettatori del Festival. In un unico piano sequenza scesi in platea, uscii dal foyer, andai nella piazza davanti all’Ariston e senza mai staccare l’inquadratura mi infilai nel tinello di una comune famiglia sanremese dove avevamo convogliato una serie di strani personaggi. Oggi funziona altro, spazio ai giovani».

Lei disse che il primo format di qualunque trasmissione che conduceva era lei stesso. Cos’è invece Sanremo? «Un punto di arrivo e anche di partenza, è come giocare in nazionale, ci vanno quelli che vengono considerati i migliori e lì, sul palco, ci si giocano momenti brandelli della propria vita professionale. O almeno così accadeva ieri. Oggi un po’ di meno. La memoria contemporanea rumina ogni cosa. Un flop o un successo durano lo spazio di un mattino e tra tre mesi non ci ricorderemo neanche il titolo della canzone vincitrice. Sanremo è una bolla. Un mondo a parte. Ma se ti sposti di venti chilometri e vai a Bordighera, le prospettive e non solo quelle, cambiano radicalmente»·

Ha nostalgia dei tempi in cui con un cavo lungo metri andava a fare televisione d’assalto nella Torino degli anni ‘70? «La nostalgia- e non solo perché si stava meglio quando si stava peggio- è parte di tutti noi. Non ho mai trovato uno che ti dica: “Il servizio militare è stato una stronzata, un incubo, una perdita di tempo” eppure, quando arrivava la cartolina, di certo non stappavamo le bottiglie. Eri più giovane, avevi la vita tutta davanti, sembrava che il tempo di domani fosse infinito. I problemi nascono altrove».

Dove? «Quando cominci ad avere più passato che futuro».