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 2017  dicembre 18 Lunedì calendario

L’Italia a tre velocità

Sidi Group è una media azienda informatica milanese che pochi anni fa si è trovata a un bivio: andare avanti sulla strada nella quale si trovava, oppure affacciarsi sul resto del mondo. La sua attività principale è sempre stata la gestione di impianti elettronici di Sap, il grande gruppo tedesco che produce computer e software per le imprese. Con 250 dipendenti sostenuti da un fatturato di circa 28 milioni l’anno, Sidi Group da molti anni aiuta clienti come Enel, l’aeroporto Marconi di Bologna o la Riso Gallo a ottenere il meglio dalle forniture tecnologiche della Sap o di altri gruppi come l’americana Cisco. 
Prima di proiettarsi verso i Paesi in via di sviluppo dell’Africa, Sidi aveva lavorato quasi solo all’interno dell’economia nazionale ed era entrata in competizione per contratti pubblici solo in Italia. È una di quelle imprese che si muovono – come avrebbe detto Giulio Cesare – in un’economia nazionale «divisa in partes tres». Scissa in tre segmenti diversi: una comunità di esportatori sempre più dinamica; una seconda comunità, più vasta, di imprese che cercano di sopravvivere esclusivamente sul mercato domestico sono meno produttive; e un settore pubblico il quale – con eccezioni virtuose – resta l’area meno dinamica e più arretrata del Paese. 
Il cambio 
Fino all’anno scorso Sidi Group aveva sicuramente fatto parte della seconda categoria. In termini di contabilità nazionale, aveva contribuito a aumentare il deficit o ridurre il surplus nei saldi degli scambi dell’Italia con l’estero, perché aveva solo facilitato l’import di molti prodotti esteri. Di recente però quest’impresa ha dovuto fare i conti con un dilemma delicato: la remunerazione offerta in Italia per una giornata di lavoro di un proprio consulente – spesso, ingegneri costosi da formare e difficili da trovare sul mercato – era la metà o meno di quella offerta anche in un Paese africano. In Italia i compensi sulle consulenze informatiche sono influenzati dalle gare pubbliche, sempre impostate al massimo ribasso per l’esigenza dello Stato di comprimere le spese per contenere il debito. Un ingegnere può dover lavorare a un sistema informatico complesso per 150 euro al giorno. All’estero, inclusa la sponda opposta del Mediterraneo, si arriva anche a 600 euro per lo stesso lavoro. 
Restare relegate in Italia per imprese come Sidi equivale a mettersi su un sentiero che porta verso l’illiquidità, il taglio degli investimenti, l’erosione della produttività e la decrescita. 
Nasce da questa semplice aritmetica l’idea di Massimo Dal Checco, presidente di Sidi, di affacciarsi al mercato estero. Un giorno nota che Senelec, la società di rete dell’elettricità del Senegal, offre un contratto di consulenza da 10 milioni di dollari finanziato dalla Banca Mondiale. Poco dopo 
aver mandato la propria candidatura, il incontra a una riunione di Assolombarda alcuni diplomatici del dipartimento internazionalizzazione della Farnesina. Questi ascoltano, capiscono rapidamente e lo mettono subito in contatto con l’ambasciata italiana a Dakar. L’ambasciatore a sua volta organizza in tempi utili un incontro di Dal Checco con i vertici operativi di Senelec e alla fine Sidi, da Milano, riesce a vincere il contratto prevalendo su concorrenti più grandi da Cina, Francia o Stati Uniti. Adesso ha la credibilità per cercare nuovi contratti in Africa e far girare la liquidità in Italia. Da azienda che contribuisce all’import di prodotti esteri in Italia, Sidi si è trasformata in esportatrice di servizi. Accresce e non erode l’avanzo dell’Italia nelle ragioni di scambio con l’estero. 
Nel sistema 
Sidi non è un caso isolato, ovviamente. Una ricerca di Prometeia per il ministero degli Esteri mostra che le imprese italiane negli ultimi tre anni hanno quasi raddoppiato il numero di contratti vinti all’estero (vedi il grafico). Grazie anche al sostegno della diplomazia economica della Farnesina, il valore di quei progetti è salito da 23 a 39 miliardi dal 2014. Questa espansione è parte di un andamento incoraggiante del fatturato di tutto il settore dell’export. Secondo Prometeia, dovrebbe crescere del 5,5% quest’anno (a 440 miliardi, pari al 26% del reddito nazionale) dopo progressi anche più rapidi negli anno scorsi. Oggi esistono nel Paese quasi duecentomila imprese esportatrici il cui reddito all’estero è esploso dai 356 miliardi di euro del 2011 ai 440 miliardi attesi quest’anno: una crescita più rapida di quella del commercio mondiale negli stessi anni; essa valeva poco più di un quinto dell’economia nazionale prima della Grande recessione e ora vale poco più di un quarto. 
Accanto a questa Italia che cresce a ritmi da Paese emergente a vale un quarto dell’economia nazionale, c’è poi l’Italia che ristagna. La media di una crescita all’1,5%, prevista per il 2017, è il risultato di questa disomogeneità. La seconda Italia è fatta di circa tre milioni aziende com’era Sidi Group fino a due anni fa: un Paese di imprese medie e spesso piccole, che non si affacciano sui mercati esteri ma dipendono da quello domestico. Come mostra il grafico, questa seconda Italia è stagnante, ha visto il proprio fatturato crollare negli ultimi anni e ancora non è tornata ai livelli di prima della crisi. 
C’è poi una terza Italia, con la quale Sidi ha a che fare quando compete per i contratti pubblici: la pubblica amministrazione e ciò che le ruota intorno. Questa terza Italia presenta isole di efficienza, come dimostrano i risultati della diplomazia economica della Farnesina. Ma a giudicare dalle graduatorie sul Doing Business della Banca Mondiale resta la parte meno dinamica: il Paese occupa la posizione 112 nel mondo per qualità ed efficienza del sistema di tassazione; la posizione 108 per la capacità della giustizia civile di far rispettare i contratti; la posizione 105 per la disponibilità di credito (il ruolo delle banche è legato alle politiche pubbliche e all’efficienza stessa della giustizia civile); e la posizione 96 per la facilità di ottenere permessi di costruzione. 
La sintesi fra queste tre Italie è un tasso di disoccupazione medio del 9,5% negli ultimi decenni. Sarebbe dunque logico cercare di spostare un numero maggiore di aziende verso i mercati globali, ma paradossalmente ciò accade in misura insufficiente. Dal 2011 il fatturato dell’export è esploso eppure, secondo Prometeia, il numero di imprese esportatrici con più di dieci addetti è persino calato un po’. Negli ultimi anni è aumentato solo il numero di imprese esportatrici con 9 addetti al massimo, ma questa è anche l’unica categoria produttiva il cui fatturato estero è sceso. Perché le dimensioni contano, eccome. Il 64% delle vendite di made in Italy nel resto del mondo è concentrato in gruppi di più di centi dipendenti, mentre la dimensione media d’impresa in Italia resta di 3,7. Dopo aver constatato che la Gallia era spezzata in tre, Cesare cercò di unificarla. Oggi invece è l’Italia che deve ridurre le sue contraddizioni.