Corriere della Sera, 14 dicembre 2017
«No alla musica dei narcisi». Intervista a Annie Lennox
Cantante, autrice, attivista per i diritti umani. Icona pop da quattro Grammy, otto Brit Awards e un premio Oscar (nel 2004 per il brano «Into the West» prestato al Signore degli anelli ) in 40 anni di carriera spesi dietro al microfono. Ottanta milioni di dischi venduti, solo per stare all’era Eurythmics. Nonostante l’infinità di cose vissute, difficile che Annie Lennox voglia raccontarsi. Lo fa, denunciando un «mondo di narcisismo dilagante», a pochi giorni dal concerto di Natale del 16 dicembre in Vaticano dove sarà la stella più luminosa accompagnata dall’Orchestra Sinfonica Universale Italiana. Lo farà per portare il suo contributo alla Fondazione Scholas Occurrentes, creata da Papa Francesco quando era ancora arcivescovo di Buenos Aires e alla Fondazione Don Bosco. Il concerto verrà trasmesso da Canale 5 in prima serata la Vigilia di Natale. Nel cast, tra gli altri, anche Patti Smith, Imany, Noa, Al Bano.
La sua arte è sempre più vissuta come sostegno a campagne benefiche...
«Non ho affiliazioni religiose, ma andrò in Vaticano per sostenere la freschezza innovativa della Chiesa che sta costruendo papa Francesco. Insieme tutti possiamo essere interpreti di una fase di cambiamento».
Nel 2010 ha anche dedicato un album al Natale. Cosa significa per lei?
«Sono nata il 25 dicembre e quest’anno sarà il mio 63° Natale. Penso che questo sia il giorno migliore per fare un bilancio dell’anno passato. Dovrebbe diventare una festa per celebrare le persone più vulnerabili della società, come i senzatetto e gli anziani».
Se dovesse tornare indietro agli esordi della sua carriera in cosa riconosce più forte il suo cambiamento?
«La musica ha fatto parte della mia vita sin da quando ero bambina. Ho iniziato a cantare nei cori e suonare il pianoforte a sei anni. Fino a quando ne avevo 20 non ho mai pensato a me stessa come un compositore di canzoni. Poi è arrivato Dave Stewart e insieme abbiamo messo a fuoco cosa sarebbero diventati gli Eurythmics. Ultimamente guardo spesso indietro per riflettere su tutto il lavoro che ho svolto. Sento di averci messo tutta la mia creatività, cercando di seguire sempre l’evoluzione che la vita ti porta».
Di cosa è più orgogliosa?
«Di essermi esibita per Nelson Mandela nei concerti 46664. Un’esperienza che mi ha trasformato da normale artista in un’attivista in lotta contro l’Aids».
Qual è il ricordo più bello che si è cucita addosso?
«Alcuni anni fa sono stata avvicinata da un uomo nel backstage durante una prova generale per un grande concerto negli Stati Uniti. Parlandone tranquillamente mi disse che lui e sua moglie erano entrambi sieropositivi. Mi disse: “Grazie per quello che stai facendo per noi”. Mi ha fatto capire che in realtà c’è un valore sconosciuto e non quantificabile in quello che stavo facendo».
C’è qualcosa nella sua carriera che non rifarebbe?
«Tante, ma l’errore più grosso è stato mettere la scritta “in eterno” su un mio contratto discografico del passato. Alcuni ex manager stanno ancora piuttosto bene grazie a quella firma».
Cosa fa oggi quando non pensa alla musica?
«Mi batto per The Circle, l’associazione che ho fondato qualche anno fa per difendere dalle violenze le donne emarginate. Ultimamente poi mi piace scattare fotografie col mio telefono e pubblicarle su Instagram. E scrivere sulla mia pagina Facebook».
Invidia qualcosa a questa generazione che può usare la forza della Rete e l’aiuto dei social network per avere successo nella vita?
«Non invidio i giovani artisti, perché penso che stiano lavorando in un campo che è diventato insostenibile. L’industria musicale non è mai stata un posto giusto e nemmeno un luogo facile dove sopravvivere. Ci sono sempre stati predatori e sfruttatori di talenti. Oggi però gli artisti sono davvero strizzati come limoni. Viviamo in un mondo di narcisismo dilagante che si nutre semplicemente di se stesso. In passato la mia generazione ha potuto essere più innovativa e originale».