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 2017  dicembre 08 Venerdì calendario

La Scala, le pagelle della prima

Bellissimo. In tanti anni di Scala si è visto il miglior esito tra La Scala e ciò che può fare la Scala, tra costi e benefici, tra potenzialità e risultato, tra velleità e realismo, tra sintesi e ciò che non è sintetico per niente: l’opera. Tutto armonicamente eccellente, senza infamia e senza genio, buona l’orchestra e c’era sotto un gran lavoro, anche se agli archi ogni tanto scappava la mano e minuziosa l’orchestrazione, la trasparenza e i volumi maniacalmente curati da Chailly si sono clamorosamente disvelate tutte le sue esperienze precedenti, come non era accaduto con Verdi e soprattutto equilibrati tra loro i cantanti, e non era facile perché l’opera è difficile e sbagliare o strafare è un’attimo. Non è stata la miglior opera della nostra vita perché Umberto Giordano è semplicemente Umberto Giordano, ma su quel «semplicemente» ci sarebbe da dire moltissimo e forse qualcosa diremo. 
8) ALLA SCALA 
L’organizzazione della Prima è quanto di meglio sia possibile organizzare in questo Paese, cerimonie presidenziali comprese e regioni italo-tedesche comprese. Funziona. Tutto. C’era anche meno polizia del solito e meno transenne. Le proteste di rito non sono neanche più proteste, sono un fondale lontano, faceva più paura la Rivoluzione francese (finta) che si rappresentava nell’Andrea Chénier. In sala c’era anche la figlia del direttore Victor de Sabata a 50 anni dalla scomparsa: de Sabata è stato l’inventore del 7 dicembre (inteso come «Prima») che decise di anticipare l’apertura di stagione spostandola dal 26 dicembre al 7 dicembre, giorno del patrono di Milano. Quanto alla mondanità, non ce ne frega niente e valgono le solite cose: sì, c’era qualche cafone ma molto meno che mai, c’era un sacco di gente che era lì per esserci e di musica non sa nulla, c’erano gli strascichi dell’era Monti ma non abbiamo voglia di fare nomi: soliti bancari, politici niente o quasi, il ministro Franceschini sul palco reale sempre con quell’aria da imbucato e persino meno stranieri del solito, all’apparenza. 
8) ALL’OPERA 
L’inizio è schematico come un pensiero grillino: ci sono i nobili grassi e lussuriosi che fanno festa mentre il Terzo Stato piange e fa la fame. Ma poi le cose si riequilibrano perché è quello che accadde e anche perché il pubblico di fine 800 altrimenti si sarebbe incazzato. Invece l’opera divenne subito popolare debuttò proprio alla Scala nel 1896 ma fece la fine di altre opere che siccome piacevano al Fascismo sono state messe in naftalina per un sacco di tempo. L’opera è divisa in 4 Quadri che coprono diversi anni (da prima della Rivoluzione al Terrore di Robespierre) e scicola via come un film, sia per la durata (2 ore e 35 minuti incluso l’intervallo) sia perché l’influenza dei primi film si sente tutta, così come la tendenza a passare repentinamente da singoli personaggi (come dei primi piani) ai campi larghi delle scene di folla. Puccini copierà alla grande, e forse non soltanto quello. 
8) A GIORDANO 
Può, uno di Foggia, addivenire a mago dell’armonia e dell’orchestrazione con un occhio (mezzo occhio, diciamo) alle prime tentazioni atonali? Beh, a quanto pare sì. Certo, come tutti gli immigrati tendeva a prendersela con la terra natìa: nel 1892, quando venne invitato a suonarne alcuni brani al pianoforte presso un circolo di Foggia, a metà esecuzione si accorse che la gente giocava a carte invece di ascoltarlo. Non lo perdonò mai. 
Purtroppo il sottovalutato Giordano sottovalutato oggi fece la fine di altri compositori che ebbero la colpa di piacere al Fascismo: una discriminazione che nel Dopo guerra fu tuttavia selettiva. Puccini e Mascagni furono salvati, Alfredo Casella, Ottorino Respichi e Umberto Giordano invece no. Colpa anche dei maledetti della «scuola di A Darmstadt» che nel dopoguerra occuparono la scena faccendo fuggire il pubblico a gambe levate: i vari Maderna, Berio, Nono e insomma l’Italia della «nuova musica». 
8) A CHAILLY 
Il maestro è promosso a prescindere per l’operazione che sta facendo: fregarsene dei cartelloni di rito e andarsi a riprendere roba svalutata per ragioni extramusicali, come detto. L’Andrea Chénier e la Fedora di Giordano sono spesso state considerate rappresentazioni di serie B e così pure il «verismo» in generale, ritenuto colpevole di essere troppo a tinte forti e protese a gestualità e vocalità sin troppo teatraie: il che in genere piace al pubblico anche quello di ieri sera, piacevolmente colpito e sopreso e meno agli esteti. 
Chailly, in passato, fece e incise lo Chènier con gente come Carreras, Pavarotti e Caballé: ora ha avuto la forza di ricominciare da capo e «rileggere» una partitura pressoché sconosciuta all’orchestra (questa orchestra) e rifuggendo ogni compiacimento. È per questo che ha proibito gli applausi a scena aperta: cosa peraltro ovvia, ma col pubblico di oggi non si sa mai, e infatti una spettatrice ci ha provato nel secondo Quadro e quasi alla ghigliottina ci finiva lei. 
Per il resto, tutti disciplinati: soprattutto attorno alle cinque o sei arie principali che sono solo ciliegine rispetto alla torta. C’era da concentrarsi su echi e citazioni, piuttosto. Nel III quadro, durante la scena del tribunale, risuona ben chiaro il famoso Tristan-Akkord: ma a ben vedere di citazioni wagneriane se ne potevano contare almeno una trentina. 
Giordano è un autentico gioco delle citazioni: ci si trova di tutto senza che l’opera ne risulti appesantita e talvolta resta solo da capire, sottratte le citazioni, che cosa resti di Giordano. 
8) A MARTONE 
Ne abbiamo già scritto giovedì, del regista, e l’abbiamo tanto elogiato che oggi, per compensare, aggiungiamo che la sua regia tradizionale (con concessioni) è parsa quasi paracula: ma tanto basta, perché è piaciuta, meglio: non ha infastidito la prima donna che non era la Netrebko, era l’opera. Molto furbo e ben fatto il palco girevole che ha evitato i tempi morto nei cambi di scena. 
8) AI CANTANTI 
Ci riferiamo ai cantanti tutti ma soprattutto per il debuttante (alla Scala) Yusif Eyvazov, apprezzato Chénier e nella vita giovane marito (reale) della «superstar» nel ruolo di Maddalena. Il protagonista però era lui e lo è stato pienamente, nonostante la sua emozione fosse percepibile: lo stesso Chailly si era detto preoccupato. Eyvazov, che è zero, temeva i fischi dei loggionisti che invece l’hanno applaudito per dieci minuti veri non è poco al pari dell’altro protagonista Luca Salsi, star di casa nel ruolo di Gérard. Di Eyvazov, sulla Stampa, Chailly aveva detto: «La sua è una voce drammatica, ma capace di modulare, di sfumare e di dare il giusto rilievo al testo. Spero non lo tradisca l’emozione. Credo che Eyvazov, Anna Netrebko e Luca Salsi siano tutti e tre all’altezza della musica di Giordano». È stato così, anche se due paroline sulla Netrebko si possono dire. 
7) ALLA NETREBKO 
Da queste parti non andiamo pazzi per questa superstar della lirica, beniamina del pubblico scaligero e abbonata all’applauso automatico. È forse la soprano più celebre su piazza, ma l’impressione è che l’essere stata la cocca di Valery Gergiev e di Vladimir Putin rimanga la sua vera arma vincente, oltre a una beltà un po’ appassita e inciccionita. La bellezza può capitare persino alle grandi artiste: si pensi ad Anne Sophie Mutter o Victoria Mullova, alla pianista Helene Grimaud, alla stessa Netrebko che in passato posò in foto sexy. Ma resta un’urlatrice (parere nostro) al di là del successo mediatico e di qualche problema di intonazione: c’è di buono che ieri sera si è trattenuta e ha modulato molto (Chailly l’avrà minacciata con la ghigliottina) e senza voler strafare ha restiuito equilibrio a tutto il resto. Brava. Ma stia schiscia, si dice a Milano.