L’Economia, 11 dicembre 2017
I big del web nella rete delle tasse
Nei prossimi giorni, con l’esame degli emendamenti alla legge di Bilancio proposti alla Camera, dovrebbe essere definitivamente approvata la web tax. La sostanza del provvedimento, che porta la firma del presidente della Commissione Industria Commercio e Turismo del Senato Massimo Mucchetti, è presto spiegata.
È un’imposta del 6 per cento sulle «transazioni digitali» che graverà di fatto soltanto sui soggetti non residenti privi di una stabile organizzazione in Italia, come Google o Facebook. Il gettito stimato è di 114 milioni annui. La tratterranno e la verseranno al Fisco gli intermediari finanziari, le società di carte di credito e le banche (con il riconoscimento di un aggio). Non colpirà direttamente il consumatore, né tutti coloro, e sono ormai tantissimi, che utilizzano i canali dell’ecommerce.
Sono escluse – ed è questo un passaggio importante – le imprese agricole, le piccole aziende, l’imprenditoria giovanile, nonché le persone fisiche. Non si è voluto – almeno finora nelle intenzioni del legislatore – ostacolare la libertà di accesso alla Rete degli operatori più piccoli e degli individui, né privare ogni soggetto economico del vantaggio competitivo di una «finestra digitale». È previsto un meccanismo di credito d’imposta a beneficio degli operatori nazionali o residenti esteri con stabile organizzazione.
Le imprese web italiane non la pagheranno perché, anche se avessero un bilancio in perdita, potranno detrarre dall’Irap, dalle ritenute fiscali, dai versamenti contributivi e assicurativi Inail.
Le posizioni della UeLa web tax non dovrebbe comportare ulteriori aggravi amministrativi per le imprese. E nemmeno contrastare gli orientamenti internazionali che faticosamente stanno maturando. Casomai cercare di anticiparli. Una comunicazione del 21 settembre 2017 della Commissione europea, prefigura una possibile tassazione dei cosiddetti Over The Top, in attesa che l’Ocse maturi un orientamento definitivo, ostacolato dalle resistenze americane. I governi d’Italia, Spagna, Francia e Germania – in una dichiarazione congiunta del 7 settembre – si erano espressi per una tassazione adeguata delle «società operanti nell’economia digitale». Altri sei Paesi li hanno già seguiti. Non Lussemburgo, Malta, Irlanda e il blocco dell’Est.
Il clima, nei confronti dei giganti del web, sta cambiando un po’ ovunque. I sospetti di un ruolo troppo neutro e disattento ai contenuti, nel cosiddetto Russiagate, hanno minato parte del patrimonio di simpatia democratica di cui sono depositari Facebook, Google o Twitter. L’amministrazione Trump preme per il rimpatrio di capitali accumulati all’estero dagli Over The Top e sottratti al Fisco americano.
Le conseguenzeMa se pagheranno di più in patria saranno meno disponibili a farlo poi all’estero. Apple ha appena deciso di mettere su un fondo speciale di garanzia con 13 miliardi di tasse non versate all’Irlanda dopo l’avvio della procedura d’infrazione promossa dalla commissaria alla concorrenza europea Margrethe Vestager. Resteranno congelati in attesa della pronuncia della Corte di Giustizia europea. La Commissione giudica il fatto che il gruppo di Cupertino abbia pagato in Irlanda solo lo 0,01 per cento delle imposte sui profitti (l’aliquota normale è al 12,5 per cento) alla stregua di un aiuto di Stato.
Secondo la relazione che ha accompagnato, al Parlamento europeo, la proposta di direttiva fiscale (Common corporate tax base), l’Italia ha perso nel periodo 2013-15 più di mezzo miliardo di gettito per le imposte eluse da Facebook e da Google. In Irlanda con 5 milioni di clienti Google fattura 23 miliardi; in Italia con 38 milioni di user appena 70-80 milioni. L’indagine realizzata da R&S Mediobanca sui conti di 21 multinazionali del web ha calcolato che, in cinque anni, il ricorso ai paradisi fiscali ha prodotto un risparmio complessivo sulle imposte di 46 miliardi. Il gruppo di Zuckerberg ha un tax rate dell’uno per cento nei Paesi extra-Ue nei quali opera. E Apple, che è stata analizzata al di fuori di questo gruppo, ha risparmiato in tasse 23 miliardi dal 2012 al 2016.
Da noi Se anche la Camera approverà il testo licenziato al Senato, la web tax dovrebbe essere effettiva dal 2019. La misura è stata concordata con il governo e seguita con particolare attenzione dal ministero dell’Economia. Vi ha lavorato molto l’economista Mauro Maré che su Il Sole 24 Ore del 5 dicembre ha spiegato come ormai non abbia più senso cercare di colpire i redditi d’impresa delle multinazionali del web, ma sia necessaria una misura «non punitiva e meno distorsiva possibile» sullo scambio di dati.
Francesco Boccia (Pd), presidente della Commissione Bilancio, Tesoro e Programmazione della Camera, si è espresso a favore di una tassa più bassa, dell’uno per cento, sui servizi e su tutto il commercio elettronico che porterebbe, secondo i suoi calcoli, a un gettito di 650 milioni. Un emendamento alla Camera potrebbe andare in questa direzione, anche cercando di affrontare alcuni aspetti critici della proposta votata al Senato. Boccia è tra gli antesignani della tassazione degli Over The Top, già ai tempi del governo Letta. Promosse una norma per l’obbligo di fattura. La partita Iva, per esempio, c’è ma non viene usata. Un caso clamoroso è quello di Airbnb che in Italia fa 3,5 milioni di contratti con 11,5 milioni di persone.
Al di là del gettito previsto, francamente ancora modesto, la web tax potrebbe indurre gli Over The Top a considerare la necessità di avere una sede vera in un Paese con un mercato così importante. Ma sarà decisiva l’evoluzione degli orientamenti europei e internazionali. La Francia sta studiando una norma simile a quella italiana. L’Ocse in una riunione tecnica in programma questa settimana, è impegnato a verificare la praticabilità di misure transitorie, anche sull’esempio della tassa sulle transazioni indiana, introdotta lo scorso anno ma solo sui non residenti. Nell’ultima riunione dei ministri europei dell’Ecofin si è cominciata a discutere una diversa nozione di «stabile organizzazione», considerando quella virtuale allo stesso livello di quella reale. Oggi Facebook e Google hanno uffici in Italia con poche decine di dipendenti e si considerano soggetti non commerciali.
Il diritto fatica a inseguire il mondo digitale. Il ritardo è rilevante. L’interesse e la preoccupazione che la piccola web tax italiana ha suscitato anche all’estero sono significativi. L’ambasciata americana a Roma si è mossa per ritardarla di almeno due anni, anche usando qualche argomento forte. Nelle azioni di lobbying i giganti della Rete sono assolutamente fedeli alla tradizione.