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 2017  dicembre 08 Venerdì calendario

La decisione di Trump su Gerusalemme è un serio problema per l’Arabia Saudita

Qual è la priorità per l’Arabia Saudita? Isolare l’Iran, mantenendo solidi rapporti con gli Stati Uniti, e forse coinvolgendo anche Israele nel blocco anti-Teheran, oppure difendere la causa palestinese, assumendo posizioni oltranziste? 
Per un Paese che ha gelosamente conservato il suo ruolo di custode dei luoghi sacri dell’Islam, ergendosi paladino della causa palestinese, il dilemma non è da poco. 
Con la decisione di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele, il presidente americano Donald Trump ha messo gli alleati sauditi in una scomoda posizione. Riad non poteva tacere. Avrebbe significato fomentare il malcontento popolare sul fronte interno, offrendo il fianco ai suoi rivali pronti a urlare al tradimento. In ritardo rispetto ad altri Paesi, la monarchia saudita ha rotto gli indugi condannando la decisione di Trump come «irresponsabile e ingiustificata». Il comunicato diffuso contiene espressioni quali «profondo dispiacere», «grande pregiudizio contro i diritti storici e permanenti del popolo palestinese», ma ammette pure che il passo non pregiudica i diritti dei palestinesi. 
Forse da Riad i Paesi musulmani si attendevano risposte più decise. «Irresponsabile» è un termine duro. Lo è però meno del «deplorevole» usato dal presidente francese Emmanuel Macron.
Il problema è che l’iniziativa di Trump è avvenuta in una delicatissima fase in cui i sauditi stanno profondendo grandi sforzi, investendo decine di miliardi di dollari, per condurre una “guerra” contro la crescente influenza iraniana nella regione. Una strategia che finora non ha premiato. Né in Yemen né in Siria né in Libano.
In giugno Trump aveva forgiato un’alleanza storica con la monarchia saudita fatta di contratti miliardari di fornitura di armi e imperniata su una strategia anti-iraniana. Forte del sostegno americano, Riad (insieme alle monarchie del Golfo) aveva subito decretato un embargo totale contro il Qatar, accusato di sponsorizzare il terrorismo e di complottare con l’Iran. L’embargo, però, non ha sortito gli effetti sperati. Il Qatar non si è piegato, anzi si è avvicinato all’Iran, rafforzando le relazioni anche con la Turchia.
In novembre la monarchia saudita ha riprovato ad allargare il fronte anti-iraniano. Dopo aver neutralizzato un missile lanciato dallo Yemen sopra il cielo di Riad ha accusato l’Iran e gli Hezbollah del lancio, sostenendo che tale azione equivaleva a «una dichiarazione di guerra». Ridimensionare il movimento sciita Hezbollah, la longa manus di Teheran sul Mediterraneo, non è però facile per Riad. A meno che non coinvolga Israele, che ha già combattuto una guerra con Hezbollah e si sta preparando all’eventualità di un altro confronto militare. 
E qui per l’erede al trono saudita, Mohammed Bin Salman, si pone il dilemma. Per centrare i suoi ambiziosi obiettivi l’uomo più potente del regno, nonchè il grande amico della Casa Bianca, ha bisogno del sostegno degli Stati Uniti, ma gli risulterebbe utile anche normalizzare i rapporti con Israele, il cui nemico storico è da tempo l’Iran. Non sono pochi gli osservatori secondo cui bin Salman preferirebbe sacrificare la causa palestinese, facendosi mediatore di un accordo anche sfavorevole ai palestinesi, sull’altare della sua “guerra” contro Teheran. Ufficialmente i sauditi si trovano così costretti ad assumere un atteggiamento pro-palestinese, che tuttavia nella realtà non è così solido. 
E qui entra in gioco la Turchia, da anni in rapporti più che amichevoli con Hamas e altre formazioni palestinesi. Già critico con i sauditi per l’embargo contro il Qatar, il presidente Recep Tayyip Erdogan, ha approfittato della decisione di Trump, per “ufficializzare” il ruolo della Turchia come paladina della causa palestinese. Martedì Erdogan ha definito l’intenzione di Trump «una linea rossa», minacciando di far saltare le relazioni con gli israeliani. Una posizione che Riad non vuole, e forse non può permettersi di assumere.