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 2017  dicembre 08 Venerdì calendario

Marcello Dell’Utri ha deciso di lasciarsi morire in cella

PALERMO Né medicine né cibo. Pronto a lasciarsi morire in cella. È l’ultima frontiera della vita di Marcello Dell’Utri che, dopo il rifiuto opposto dal procuratore generale e dal Tribunale del riesame alla scarcerazione per motivi di salute, ieri ha fatto echeggiare la sua sfida dalle mura di Rebibbia: «Mi vogliono morto. E allora decido di farlo di mia volontà, adottando lo sciopero della terapia e del vitto».
Rabbia e amarezza rimbalzano attraverso gli avvocati: «Non ce la faccio più, sono provato, stanco. Basta, non mangio e non mi curo più...». È l’ultima prova di «un uomo vecchio e malato», come lo descrivono i suoi amici, costretto a girare in continuazione da un ospedale all’altro per il cuore che non va con i suoi quattro stent e soprattutto per un tumore alla prostata. Ultima prova di un uomo di 76 anni condannato definitivamente a 7 anni di carcere nel 2014, estradato dopo una breve fuga in un ospedale di Beirut, recluso con questa somma di patologie che per familiari, avvocati e periti di parte sono incompatibili con la detenzione.
Ma sembra essersi scatenata anche una guerra di periti sul destino del manager che Silvio Berlusconi scelse come braccio destro nelle avventure imprenditoriali e nella nascita di Forza Italia segnata, secondo le sentenze emesse a Palermo, da un peccato originale. Quello di una trattativa Stato-mafia che 25 anni dopo le grandi stragi è materia di un discusso processo senza fine. Con Dell’Utri alla sbarra con uno stuolo di mafiosi, politici e perfino ufficiali dei carabinieri come il generale Mario Mori.
Ad opporsi in modo deciso alla «richiesta di
differimento dell’esecuzione della pena per grave infermità
fisica» è stato il procuratore generale Pietro Giordano. Ma contro
il parere degli stessi consulenti del suo ufficio, che si
erano espressi per la incompatibilità tra le condizioni cliniche
e lo stato detentivo, affidandosi piuttosto ai rilievi dei periti del tribunale, certi che Dell’Utri possa continuare a essere curato in cella. Non solo, il collegio ha anche bacchettato i consulenti della Procura perché si sarebbero limitati a valutare telefonicamente le conclusioni dei periti del tribunale.
Deduzioni che lasciano sgomenti la moglie Miranda Ratti, il figlio Marco, il fratello gemello Alberto, gli stessi legali: «Non vorremmo che il provvedimento del tribunale avesse ripercussioni psicologiche gravi sul detenuto». Ma non convincono anche una schiera di amici che non ha mai creduto alle gravi accuse dei pentiti e alle ricostruzioni dei pm, compresi molti parlamentari che evocano il senso di umanità. Anche con un appello al ministro della Giustizia, al presidente della Commissione diritti umani Luigi Manconi e al capo dello Stato, come fa il coordinatore nazionale del Nuovo Psi Antonio Fasolino. Si levano proteste e appelli dall’avvocato Niccolò Ghedini, da Daniele Capezzone, da deputati come Elio Vito o Michaela Biancofiore, che sottolinea «accanimento politico-giudiziario e fumus
persecutionis». Contrariamente al verdetto di giudici che concludono «per la compatibilità con il
carcere non emergendo criticità o urgenze tali da rendere
necessario il ricorso a cure o trattamenti non attuabili in
regime di detenzione». Nonostante la Corte europea dei diritti umani avesse
chiesto a Roma di valutare il caso per escludere rischi di «trattamenti inumani e degradanti».