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 2017  dicembre 08 Venerdì calendario

Per Tremonti «il taglio delle tasse di Trump è una riforma del capitalismo»

«Più che una riforma fiscale è una riforma del capitalismo. Alla sua base c’è un disegno geopolitico di rilancio dell’America basato sugli investimenti: spinta alle imprese e fine del declino. Chi dice che gli Usa tornano alla strategia di Arthur Laffer, l’ispiratore di Reagan, ha torto: la riforma di Donald Trump segue una logica opposta rispetto a quella di Ronald Reagan negli anni Ottanta». 
Giulio Tremonti si prepara alla sfida elettorale alla guida, insieme a Vittorio Sgarbi, di un nuovo movimento di ispirazione estetico-politica, Rinascimento, ma in lui si agitano sempre i geni del ministro che per molti anni ha disegnato le politiche economiche e tributarie dei governi Berlusconi. Si accalora nello spiegare come, secondo lui, Trump userà le tasse per cambiare non solo l’economia ma anche il ruolo internazionale degli Usa. E, alla fine, la butta là: «Non tocca a me fare paragoni, ma la filosofia di questa riforma americana è molto simile a quella della legge Tremonti del 1994. Allora varammo una detassazione dei profitti utilizzati per acquistare beni strumentali. Fu il primo esperimento dell’uso del Fisco per stimolare anziché per tassare. Stimolare gli investimenti in questo caso. Trump fa la stessa cosa: per il rilancio punta sulla produzione, non sui consumi».
Perché Trump va in direzione opposta rispetto a Reagan?
«La prima grande riforma fiscale l’America l’ha avuta con Franklin Delano Roosevelt che negli anni 40 del secolo scorso trasformò la tassa sul reddito in un’imposta personale progressiva di massa per finanziare la guerra e, successivamente, il cosiddetto big government. Quarant’anni dopo Reagan cambia rotta: abbassa drasticamente le tasse personali in modo da far impennare i consumi e, quindi, il Pil. Vuole dare una spinta immediata, è l’era dell’edonismo reaganiano».
Anche Trump dice che la sua riforma rilancerà l’economia. E anche lui, come Reagan, rischia di provocare un aumento imponente del debito pubblico federale. 
«La riforma degli anni 80 fece crescere l’economia. Non è certo che sia stata responsabile anche della crescita del debito: quelli furono anni di forti spese di riarmo militare, erano ancora tempi di guerra fredda. Di certo Reagan non si preoccupava più di Trump del rispetto dei vincoli di bilancio. Ricorda la sua celebre frase sul deficit che è abbastanza grande da poter badare a se stesso? Ma torniamo a oggi. Ci vorrà tempo per misurare l’effetto della nuova riforma sul bilancio federale e l’impatto economico sulle famiglie. Tra l’altro i testi varati da Camera e Senato sono diversi. Vedremo cosa accadrà in sede di riconciliazione e col voto finale. Ma è chiaro fin d’ora che quella di Trump è una riforma molto diversa: non è concentrata sui redditi individuali ma sulle imprese, non cerca la popolarità né l’impatto immediato con un forte abbattimento del prelievo sulle persone fisiche, guarda lontano. Punta a cambiare la struttura industriale nel lungo periodo. Credo che anche stavolta, come nell’era Reagan, l’America farà scuola: l’Europa prenda nota».
I benefici per le aziende sono in effetti enormi. Ma sono in tanti a ritenere che qui Trump ha normalizzato una situazione anomala: gli Usa, che avevano un’aliquota sulle imprese altissima, il 35%, e la pretesa di tassare le attività svolte dalle imprese americane anche all’estero, ora scendono al 20, come altri Paesi occidentali, e optano per un sistema di tassazione territoriale: più simile a quello del resto del mondo. 
«C’è di più. Intanto questa è la prima riforma nell’era della globalizzazione. Quella di Reagan pensata per i contribuenti individuali in un mondo in cui c’erano ancora i confini nazionali. La riforma attuale, invece, è pensata per il mondo globalizzato, per riportare a casa le imprese americane che sono andate all’estero. Trump introduce un’aliquota più bassa di quelle europee e un meccanismo amministrativo molto più semplice. Questo darà un enorme vantaggio agli Usa: le sue imprese avranno tutto l’interesse a tornare a concentrare la loro attività tassabile nel Paese. Per l’Europa saranno guai anche perché, con l’unico provvedimento che mi sento di criticare aspramente, questa riforma crea un forte disincentivo a fare acquisti all’estero. Le imprese americane dovranno pagare un’imposta del 20% – accisa o inbound tax – su quello che comprano in altri Paesi. È protezionismo, un ricorso esagerato al mercantilismo: un rischio grosso per l’Europa che deve chiedersi come reagire, che fare».
Un Trump che, dopo aver minacciato per anni l’arroccamento dell’America dissanguata dal free trade, sceglie l’isolazionismo fiscale? Un altro fattore di scollamento del rapporto degli Usa coi suoi alleati.
«Su questo bisognerà riflettere. Scoraggiare gli acquisti da fuori significa fare del mercantilismo: non va bene. Questa, però, è una riforma dagli effetti più vasti: davanti al bivio tra declino e sviluppo sceglie lo sviluppo».
Ma lo fa in modo squilibrato e, forse, nel momento sbagliato: premia i ricchi più dei poveri in un Paese già segnato da sperequazioni estreme nella distribuzione del reddito. Gli economisti notano, poi, che le detassazioni per sostenere l’economia vanno fatte per invertire un ciclo negativo, mentre l’economia Usa cresce a buon ritmo: il rischio è di surriscaldarla.
«Lasci stare gli economisti. Questa, come le ho detto, non è una manovra congiunturale. Non è una riforma che cerca il risultato economico e nemmeno il consenso elettorale immediato. Chi pagherà meno tasse non ci guadagnerà, comunque, molto. È una riforma di sistema che cambia le regole del capitalismo americano. Può non piacere ma è con questo che dovremo fare i conti. Quanto all’equità, potrei risponderle con l’apologo del pane: prima di consumarlo devi produrlo. Se il fornaio riesce a farne di più, ne beneficiano tutti».
Salvo che in America, invece, gli stipendi ristagnano e il ceto medio scompare. Crescono solo i profitti.
«E allora in una seconda fase i benefici fiscali andranno concessi chiedendo in cambio alle imprese di pagare stipendi giusti. Ma la questione dell’equità, pur rilevante, non può mettere in ombra l’importanza del disegno geopolitico che è alla base della scommessa di Trump: arrestare il declino dell’America dando la scossa alle sue imprese. Prevedo fenomeni di emulazione in Europa: anziché competere fiscalmente tra loro, Germania e Francia adesso dovranno preoccuparsi della concorrenza tributaria degli Usa».