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 2017  dicembre 08 Venerdì calendario

Una passeggiata con gli storici per capire Gerusalemme

Ci sono pochi luoghi al mondo tanto carichi di storia e memoria. Un retaggio ricco, affascinante mosaico delle declinazioni del monoteismo nei secoli. Ma anche pesante, talvolta oppressivo, potenzialmente esplosivo. Il Muro del Pianto a poche decine di metri dalle moschee di Al Aqsa e della Roccia. Crocifissi armeni, cattolici, etiopi, protestanti, ortodossi appesi negli stessi mausolei. Il Santo Sepolcro a segnare il confine con la zona musulmana che conduce alla porta di Damasco, dove le mura sono più basse e si racconta vi abbiano fatto irruzione i cavalieri della Prima Crociata nove secoli fa. Cimiteri di fedi diverse, tombe, sinagoghe, chiese e moschee, parete a parete, divisi solo da un vicolo, ma anche in competizione gli uni con gli altri, in certi casi gli uni a spese degli altri. Basterebbe ricordare questa semplice realtà per sottolineare quanto Gerusalemme sia un nodo cruciale per la pace o la guerra nella regione. 
Oggi i nuovi quartieri ebraici costruiti a colpi di palazzoni sempre più velocemente sui territori occupati da Israele al tempo della guerra del giugno 1967 hanno ingigantito la città a dismisura. Maalè Adumim, che solo venti anni fa pareva un isolato sobborgo sulle colline che divallano verso il Mar Morto, è adesso una gigantesca appendice meridionale della città che accerchia nel cemento i quartieri arabi più popolosi assiepati sulla provinciale per Gerico. E Har Homa, un’altra collina posta presso la strada che da kibbutz Ramat Rachel porta a Betlemme, è come se avesse dimenticato le infinite polemiche e battaglie che ne caratterizzarono la colonizzazione al tempo del primo governo Netanyahu, nella seconda metà degli anni Novanta, per diventare una ricca area residenziale con supermercati e fabbriche high tech. Un possibile polo di attrito che, con il ritorno degli scontri in seguito al discorso di Trump, ieri era fittamente presidiato dalla polizia. 
Eppure, non è sempre stato così. Amos Elon, noto scrittore israeliano deceduto nel 2009, per cercare di sdrammatizzare la situazione usava citare alcune pagine celebri di Mark Twain, che nel suo Gli innocenti all’estero, la cronaca ironica del suo viaggio da turista in Terra Santa nel 1867, parlava di una «provincia abbandonata, povera e tediosa dell’Impero Ottomano, dove da decenni non accade assolutamente nulla». In toni simili si esprime anche Tom Segev, giornalista ma soprattutto storico sottile innamorato del paradosso sino alla provocazione. «Il conflitto in questa terra si disegna anche a colpi di mappe, date e confini apparentemente invalicabili, che però in realtà vengono continuamente cancellati e ridisegnati con il cambiare dei valori ideologici e dei riferimenti politici. Dalla fine della sovranità ottomana cento anni fa, al piano Onu per la partizione del 1947 e i risultati della guerra del 1948, sino alla guerra del 1967, seguita dalla restituzione israeliana del Sinai grazie alla pace con l’Egitto e il progetto di pace con i palestinesi nel 1993, non ci sono mai state frontiere intoccabili», sottolinea. A far da filo rosso è la sua ampia biografia di David Ben Gurion, la cui pubblicazione in ebraico è programmata per il prossimo febbraio. «Il padre della patria israeliana come tutti i primi sionisti non era affatto interessato a Gerusalemme. Arrivò giovane migrante dall’Europa dell’Est nel 1906 e subito andò a fare il contadino in Galilea. Visitò Gerusalemme per un impegno di lavoro solo tre o quattro anni dopo. Ma la città non lo attirava. C’erano troppi arabi per i suoi gusti. E soprattutto detestava gli ebrei ortodossi, gli ricordavano la realtà della diaspora che si era lasciato alle spalle per sempre». Un dato sottolineato all’infinito dai nuovi storici israeliani: per i primi sionisti laburisti che guidavano il movimento, e in effetti per la maggioranza dei loro partiti politici sino alla Guerra dei Sei giorni, le città dell’utopia realizzata nel nuovo ebreo produttore emancipato dai valori diasporici erano Tel Aviv, Petach Tikvah, Herzlya, le colonie agricole, certo non Gerusalemme, che sapeva di stantio, di vecchio e obsoleto. Aggiunge Segev: «Durante la guerra del 1948 Moshe Dayan, che allora comandava l’esercito, annunciò che la città vecchia di Gerusalemme poteva essere presa ai giordani manu militari. Ma Ben Gurion fu contrario, non voleva assumersi l’onere del controllo dei luoghi santi musulmani e cristiani. Fu persino pronto a rinunciare al Muro del Pianto, nonostante le violente proteste di Menachem Begin, l’allora leader dei sionisti conservatori. Salvo poi, appena dopo la formidabile vittoria del 1967, proporre di abbattere addirittura le mura ottomane antiche cinque secoli per annetterla integralmente, in barba alle opposizioni della comunità internazionale».
Della continuità dell’attaccamento palestinese alla propria terra parla invece Ghassam Khatib, intellettuale di Ramallah ed ex ministro nel governo di Abu Mazen: «Per noi Gerusalemme e la sua regione sono sempre state parte integrante della nostra identità nazionale naturale. Oggi ci dicono che abbiamo fatto l’errore nel 1948 di rifiutare il compromesso Onu per la divisione in due Stati con Gerusalemme autonoma sotto la garanzia internazionale. Ma noi allora avevamo tutto, qui stavano le nostre case, le memorie dei nostri avi, i nostri campi, la nostra acqua, perché mai avremmo dovuto cedere la metà senza difenderci e combattere?». Il tema torna d’attualità con l’approssimarsi del centenario dell’entrata a Gerusalemme del generale inglese Edmund Allenby. Accadde l’11 dicembre 1917: musulmani, cristiani ed ebrei furono per una volta tutti egualmente felici di liberarsi dell’oppressione ottomana, diventata terribile negli ultimi giorni della Grande Guerra. Però, solo pochi anni dopo, le simpatie di Londra per i sionisti portarono alla crescita delle prime organizzazioni nazionaliste palestinesi. 
Quei movimenti vennero celebrati dai «giovani delle pietre» con lo scoppio della prima Intifada trent’anni fa, il 9 dicembre 1987. Settant’anni dividono quelle due date: ma la città ne rimane profondamente segnata, a dispetto dell’ironia disincantata di Mark Twain.