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 2017  dicembre 06 Mercoledì calendario

«Gerusalemme capitale d’Israele». Strappo di Trump

Donald Trump è pronto a spostare l’ambasciata americana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendole il ruolo di capitale. Preoccupazione dall’Europa e dal mondo arabo. 
«Signor presidente, lei sta scherzando col fuoco» (un funzionario del Dipartimento di Stato Usa, ieri mattina). Settimana peggiore, Donald Trump non poteva sceglierla: dopodomani, si celebrano i 30 anni dalla prima Intifada delle pietre e stavolta, s’allarmano i diplomatici americani, più che pietre saranno fuochi. Trump è oltre l’indugio e con una serie di telefonate l’ha annunciato all’estasiato israeliano Netanyahu, allo scioccato palestinese Abu Mazen, a un irritato re giordano e al preoccupato egiziano Al Sisi: oggi, forse, firmerà quel che ha sempre promesso, il trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendo così la Citta Santa come capitale d’Israele. Sarà il caso di prepararsi, avverte la Cia: in tutte le rappresentanze Usa s’è pronti al Defcon 3, l’allerta che precede le gravi crisi internazionali.
Tutte le guerre portano a Gerusalemme, disse una volta Abdallah di Giordania, e quel che si prevede non fa sperare. Mezza Città Eterna è sotto occupazione militare dal ’67: nel 1980, quando Israele l’autoproclamò capitale, se ne andarono anche le ultime 13 ambasciate. Da allora, tutte le feluche stanno a Tel Aviv. E per evitare grane nessun presidente americano, nonostante una legge del ’95 avesse riconosciuto il nuovo status di Gerusalemme, aveva mai traslocato. 
Oggi, non c’è Paese che appoggi la scelta di Trump. «La nostra solidarietà ha un limite», dice il ministro tedesco Gabriel: «È uno sviluppo molto pericoloso, interesse di tutti che non accada». Sulla stessa linea la rappresentante Ue, Mogherini, con Italia, Belgio, Lussemburgo e il presidente francese Macron, che chiama la Casa Bianca per ricordare come questa soluzione sia incompatibile con l’idea di Due Popoli per Due Stati. «Una minaccia per la pace mondiale», avverte l’università cairota Al-Azhar, guida mondiale dei sunniti. «Gerusalemme è unica e fondamentale per le tre religioni», dice il re del Marocco a nome del Jerusalem Committee, 57 Paesi che rappresentano un miliardo d’islamici. Durissimi i turchi: «Lo status di Gerusalemme è la linea rossa per l’Islam – minaccia Erdogan —, questo errore fatale porterà alla rottura delle nostre relazioni con Israele», ricucite solo l’anno scorso dopo sei anni di gelo. 
Lieberman, il più falco dei ministri di Netanyahu, spera di «vedere già la prossima settimana l’ambasciatore Usa a Gerusalemme», ma è probabile che al trasloco servano mesi o anni. Abu Mazen ha chiesto l’intervento di Putin e del Papa, «proteggeteci», ma una proposta più concreta gli sarebbe arrivata da Trump attraverso i sauditi: accettare un bel po’ di soldi e dimettersi, proclamando il sobborgo gerosolimitano di Abu Dis la nuova capitale palestinese. «La nostra capitale è solo Gerusalemme», l’orgogliosa risposta: dall’orgoglio alla rabbia, il passo è breve.

Ogni giorno almeno un sms. Negli ambienti del partito repubblicano raccontano che il contatto tra i «due principini», Jared Kushner, genero del presidente Trump, e Mohammed bin Salman, erede al trono in Arabia Saudita, sia quotidiano, ormai da mesi. Secondo un articolo pubblicato domenica scorsa dal New York Times i due giovani, Jared 36 anni, Mohammed 32, avrebbero messo a punto un piano «rivoluzionario» per raggiungere l’accordo tra Israele e Autorità palestinese. Gerusalemme, compresa la parte Est, diventerebbe la capitale dello Stato ebraico; quella della Palestina sarebbe, invece, Abu Dis, un sobborgo della Città Santa. Non c’è bisogno di andare oltre: è bastato questo passaggio per suscitare la reazione rabbiosa del mondo arabo. A quel punto Jared ha provato a frenare, intervenendo in un dibattito domenica scorsa: «Il presidente deve ancora decidere, ci sono molti fatti da valutare». Il problema, però, è che «il presidente» si è già spinto molto avanti e oggi sembra pronto a sancire il trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme. 
La Casa Bianca, ancora una volta, sta vivendo momenti di tensioni interne e di grande confusione. I due ex generali, il consigliere per la sicurezza nazionale Herbert Raymond McMaster, il capo dello staff, John Kelly, stanno cercando di convincere Trump a rimandare l’annuncio. Dal Pentagono, guidato dal segretario alla Difesa, James Mattis, insistono: l’iniziativa esporrebbe ad attacchi violenti non solo le ambasciate, ma anche i civili americani in Medio Oriente. I servizi segreti condividono l’allarme.
Osserva Charles Kupchan, ex consigliere di Barack Obama, oggi esperto del Council on Foreign Relations: «Nell’amministrazione c’è una divisione del lavoro diplomatico: la Corea del Nord e i conflitti in corso a Mattis; la Russia al segretario di Stato Rex Tillerson; Israele e Palestina a Kushner. Ma l’istinto di Trump resta la variabile decisiva. E anche in questo caso si sta muovendo per compiacere una parte della sua base elettorale, seguendo il suo principio guida: rovesciare la logica di una politica estera che da decenni danneggia gli Stati Uniti».
Secondo altre fonti vicine alla Casa Bianca, la pressione dei «temporeggiatori» – Mattis, Tillerson e gli altri – sarebbe più che compensata dall’agitazione di due correnti del partito repubblicano al Congresso. L’estrema destra del «Freedom Caucus», oggi guidata dal deputato Mark Meadows, assiduo interlocutore di Trump; il «Congressional Israel Victory Caucus», costituito il 27 aprile scorso proprio con lo slogan: Gerusalemme capitale.
Trump, dunque, partendo dalla piattaforma del genero Kushner, starebbe assecondando i falchi del governo israeliano guidato da Benjamin Netanyahu, la destra radicale del Congresso, la sua base elettorale. «Ma è una scelta che priva Washington della carta migliore nel negoziato – commenta ancora Kupchan – e in cambio di che cosa? Mi sembra molto improbabile che Trump abbia qualcosa di equivalente da offrire ai palestinesi».