Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  dicembre 06 Mercoledì calendario

La Russia fuori dai Giochi

Niente Russia all’Olimpiade. Il Comitato olimpico ha deciso di punire Mosca colpevole di doping di Stato. Ai Giochi invernali del 2018 a Pyeongchang potranno partecipare solo gli atleti russi ma senza bandiera e inno. Ma Mosca minaccia di boicottare l’Olimpiade. 
La pena massima, il bando totale dall’Olimpiade di Pyeongchang, al via in Corea del Sud tra 64 giorni, sarebbe stata meno umiliante. Invece un piccolo contingente di Russia ai Giochi (già minacciati dai dispetti tra Kim Jong-un e Donald Trump) potrebbe esserci, però alle condizioni del Comitato olimpico internazionale (Cio): atleti senza bandiera e senza inno nazionale (in caso di medaglia suonerà quello del Cio), con divise neutre che riportino la sigla OAR (Olympic athlete from Russia) sul petto, preventivamente sottoposti ai raggi X di un antidoping terzo – quindi puliti al di sopra di ogni ragionevole sospetto – poiché il laboratorio di Mosca, rivelatosi il regno degli insabbiamenti ai Giochi casalinghi di Sochi 2014 (25 squalifiche postume e 11 medaglie tolte su 33 conquistate), non è ancora stato riammesso alla piena operatività dall’Agenzia antidoping mondiale (Wada). Il Cio non s’inventa nulla: è lo stesso modus operandi adottato dalla Federatletica internazionale (Iaaf) al Mondiale dello scorso agosto.
«Ottimo lavoro, Mister Schmid» sorride amaro, alla fine di una delle giornate più lunghe dello sport moderno, il presidente del Cio Thomas Bach al signore che gli siede accanto a Losanna. Samuel Schmid, 70 anni, ex presidente della Confederazione svizzera: è lui, capo della commissione d’inchiesta chiamata a indagare sulle colpe del sistema Russia smascherate dal rapporto McLaren (a sua volta fondato sulle rivelazioni di due talpe: l’ex direttore del laboratorio di Mosca Grigory Rodchenkov e l’ex tecnico prelevatore Vitaly Stepanov), a inchiodare ai suoi mali endemici la Grande Madre con un dossier di 30 pagine. «Le responsabilità collettive nella manipolazione dei test sono state provate in 17 mesi di lavoro – dice —. È una truffa che ha provocato danni senza precedenti al movimento olimpico». Oltre all’esclusione della Russia da Pyeongchang come nazione, le pene accessorie sono pesantissime. Sospensione del Comitato olimpico, 15 milioni di dollari di multa (serviranno a istituire un nuovo antidoping indipendente), ma soprattutto l’esclusione a vita dai Giochi di Vitaly Mutko, uomo-chiave di Vladimir Vladimirovic Putin, deus ex machina dell’Olimpiade di Sochi, ex ministro dello Sport, oggi numero uno del comitato organizzatore di Russia 2018, il Mondiale di calcio (senza l’Italia) su cui la decisione di ieri del Cio getta un’ombra sinistra. Da oggi Putin ha un problema: come salvare il Mondiale senza sacrificare Mutko, o viceversa.
La prima reazione, di pancia, è di Alexander Lebedev, vice presidente della Duma, la camera bassa del Parlamento russo: «Dovremmo boicottare i Giochi olimpici invernali: partecipare senza poter gareggiare con la propria bandiera significa essere umiliati». È difficile credere, però, che Putin (oggi l’attesissima conferenza stampa del presidentissimo) sia stato colto di sorpresa dalla mossa dell’amico Bach, molto più conciliante sull’ipotesi del boicottaggio: «Non ne vedo il motivo. Ammetteremo e proteggeremo i loro atleti puliti».
Dietro le quinte ha mediato Ban Ki-moon, ex segretario generale dell’Onu oggi capo della commissione etica del Cio, con Vitali Smirnov (ieri a Losanna insieme a Evgenia Medvedeva, la stella del pattinaggio cui Carolina Kostner dovrebbe contendere l’oro di Pyeongchang), il totem russo voluto proprio da Putin per ridare credibilità a uno sport terremotato. A pochi mesi dalle elezioni presidenziali, lo Zar sa perfettamente che arrivarci con un bottino di medaglie fresche sarebbe lo spot ideale. Certo firmate OAR (al Mondiale di atletica erano ANA, authorised neutral athletes). Ma nella sigla la parola Russia c’è. Un dettaglio non da poco.

Anche nel doping, il crimine perfetto non esiste. Lo dimostrano quei 43 minuscoli graffi a forma di «T» che hanno condannato la Russia a rinunciare ai Giochi olimpici invernali del 2018. Per carità, non è che prima dei «graffi» le prove di un sistema corrotto mancassero: c’erano le botole e i nascondigli nel laboratorio di Mosca dove venivano stoccate le boccette di urina e sangue da «ripulire». C’erano le rivelazioni-bomba (e i diari) della gola profonda Grigory Rodchenkov – ex direttore dell’antidoping – e la quantità industriale di sale con cui quei furbacchioni dei chimici del ministero dello Sport diluivano la pipì dei loro atleti bombati. Ma sono state le «T» incise sulla plastica delle provette la vera prova regina. Al microscopio elettronico – e con tecniche comparative inattaccabili – gli esperti dell’Istituto svedese di Criminologia hanno stabilito che quei graffietti (diversi dalle «F» provocate dalla lavorazione della plastica e dalle «U» generate dalla chiusura del tappo) potevano essere state incise solo dai coltellini usati per sollevare i coperchi di gomma (non sigillati) per alterare almeno il 20 per cento delle provette esaminate. Per dimostrarlo, a Stoccolma hanno aperto e chiuso oltre mille boccette filmando meticolosamente il tutto. 
Ed è per questo, come scrive Samuel Schmid, lo svizzero presidente della commissione etica Cio, il cui rapporto ha condannato la Russia, che il doping perpetrato dai russi «risponde a uno schema di una gravità e di un’articolazione senza precedenti che ha danneggiato in maniera eccezionale non solo il Comitato olimpico ma tutto il movimento sportivo mondiale». E la questione delle «T» è addirittura più grave dei pur clamorosi «114 casi di positività nelle rianalisi dei campioni di Pechino e Londra perché dimostra che quello che succedeva nel movimento sportivo russo era incoraggiato dallo Stato che forniva abbondanti mezzi economici per poter da un lato acquistare grandi quantità di sostanze dopanti e dall’altro i cancellarne le tracce» con un lavoro di squadra che richiedeva complicità totale, dal ministro dall’ultimo dei biologi. 
La creazione di una «banca delle urine pulite», scrive la Commissione Schmid, rende quello della vecchia Germania dell’Est un sistema dopante da dilettanti allo sbaraglio. Qui non solo si dopavano in massa gli atleti (come negli anni Settanta) ma si giocava ai paladini dell’antidoping fingendo di mettere a punto (per i Giochi invernali di Sochi 2014) un meccanismo di controlli efficientissimo (ovviamente solo per i non russi) che facesse della nazione la paladina mondiale dello sport pulito. L’aggiunta di sodio nelle urine per «neutralizzare gli effetti di ormoni e steroidi alle analisi» era effettuata secondo un sofisticatissimo sistema a catena di montaggio che replicava la concentrazione media misurata nell’organismo «da pulito» su ciascun atleta in modo che nessuno potesse accorgersi del trucco. Nessuno o quasi. C’è riuscito, mettendo a punto una metodologia innovativa e facendo lavorare per mesi i suoi uomini, il professor Burnier del Dipartimento di Nefrologia dell’Università di Losanna. Per smascherare il sistema (tra perizie di esperti e test) il Cio ha sostenuto costi enormi. Anche per questo Samuel Schmid ha chiesto al governo olimpico dello sport, di cui fa parte, il massimo della pena.