Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  dicembre 04 Lunedì calendario

«Rischiamo attacchi finanziari. Conviene fare il tifo per Trump». Intervista a Arrigo Sadun

Arrigo Sadun, classe 1947, economista, ex direttore esecutivo del Fondo monetario internazionale (Fmi) tornato a fare il consulente, può spiegare esattamente di che affari si occupa? 
«Dopo le esperienze nel settore pubblico, prima come direttore del Dipartimento analisi economiche al Ministero del Tesoro e poi del Fmi, da alcuni anni ho ripreso la mia attività di “consigliori” per aziende multinazionali del campo finanziario: spesso salgo sull’aereo con un amministratore delegato e durante un viaggio intercontinentale gli offro la mia consulenza strategica». 
Mantiene il segreto professionale sui suoi clienti, ma tra di essi c’è stato certamente Silvio Berlusconi, che poi la mandò al Fmi. In questo momento di grande caos che tipo di investimenti consiglia loro? 
«La mia attività è diversa da quella del consulente finanziario che propone specifiche opportunità; il mio ruolo consiste nell’analizzare le tendenze dell’economia globale e le prospettive geopolitiche che hanno un impatto diretto sugli affari dei miei clienti». 
In questo momento a cosa guarda per esempio? 
«Mi pare molto importante avere una chiara visione delle probabili conseguenze dell’approvazione della riforma fiscale proposta da Trump, perché ne dipende non solo il positivo andamento delle borse, ma anche il prolungamento del ciclo economico. Il fallimento della riforma avrebbe provocato ripercussioni sui mercati finanziari e sull’economia globale. Il Partito Repubblicano a quel punto si sarebbe diviso, rendendo impossibile l’attuazione del programma: un’ala oltranzista schierata con Trump contro l’establishment conservatore. La prospettiva di una pesante sconfitta repubblicana alla prossima tornata elettorale del 2018 non potrebbe che acuire le già notevoli difficoltà del presidente, che indebolito sul piano interno difficilmente sarebbe in grado di esercitare la sua leadership sulla scena internazionale. Si profilerebbe uno scenario di forte instabilità geopolitica, con inevitabili conseguenze per tutti». 
Insomma, conviene tifare per Trump? 
«L’inesperienza politica, la mancanza di disciplina e il carattere di Trump suscitano forti e giustificate perplessità. Occorre però riconoscere che dalla sua elezione l’economia è migliorata nettamente. L’effetto Trump, cioè l’aspettativa positiva per le riforme promesse, come quella fiscale, ha alimentato il boom delle borse, il clima di fiducia dei consumatori e la ripresa degli investimenti. La ricchezza Usa è aumentata di circa 5 trilioni di dollari mentre il Pil di oltre il 3% rispetto al 2 registrato con Obama». 
Tutto questo aiuta l’Italia? 
«Per l’Italia le conseguenze di un calo Usa potrebbe essere particolarmente grave, considerando la fragilità della ripresa in atto, la situazione dei conti pubblici e le incognite della politica. Per ora il nostro Paese, soprattutto il Nord, beneficia di una discreta ripresa economica, con tassi di crescita che non si registravano da anni, ma è dovuta a una congiuntura internazionale estremamente favorevole». 
Cosa manca per una ripresa strutturata? 
«Il completamento delle riforme avviate su lavoro e pensioni, nonché quelle che devono assicurare il funzionamento di numerose istituzioni fondamentali per il successo di una moderna economia: l’istruzione e la formazione professionale, la giustizia, il contrasto della criminalità organizzata e la pubblica amministrazione. Questi sono obiettivi che altri Paesi avanzati hanno perseguito con una determinazione assai maggiore della nostra. Per esempio la Svezia ha saputo reagire alla crisi finanziaria degli anni ’90 modernizzando il proprio sistema sociale e ottenendo performance eccellenti. Anche la Germania, che per molto tempo veniva considerata “il grande malato d’Europa”, ha attuato riforme che le hanno permesso di superare la crisi e pure i vicini». 
Lo sanno tutti, ma come mai non si fanno? 
«Non c’è dubbio che le riforme paghino nel lungo periodo, ma richiedono un largo consenso e prolungati sforzi che spesso si estendono ben oltre il mandato di singoli governi o parlamenti. Ciò spiega perché sia così difficile attuarle in un Paese come il nostro dove mancano ampi seguiti politici e la durata dei singoli governi è breve». 
Che ruolo ha l’Ue? 
«È uno dei tre grandi blocchi dell’economia globale, ma per mantenere il proprio ruolo sulla scena deve trovare una maggiore integrazione economica ed unità di intenti. Nell’Ue l’Italia ha una posizione importante, anche se spesso si trova subordinata ad iniziative proposte da partner con un maggior peso economico e politico». 
Cosa pensa della Brexit? 
«Più che un grave errore politico è stata una vera tragedia per il Regno Unito, ma anche per il resto d’Europa. Il rischio maggiore è che spinga altri Paesi a rallentare la coesione europea. Inoltre, la gestione di questo divorzio è un’enorme distrazione e un dispendio di capitale politico, che avrebbe potuto essere impiegato per le sfide della globalizzazione». 
Il Fmi fa parte della cosiddetta Troika. C’è del vero nella raffigurazione spietata che si fa di questo gruppo? 
«La Troika è stato un arrangiamento particolare creato per rispondere alle particolari esigenze della Ue. In realtà l’atteggiamento iniziale delle istituzioni comunitarie, a cominciare dalla Bce, era contrario ad un coinvolgimento del Fmi, visto come un’interferenza negli affari europei. La Germania, al contrario, ha sempre considerato un suo intervento come essenziale per dare credibilità ai salvataggi. Non va dimenticato che il Fmi ha un’esperienza unica nell’affrontare crisi finanziarie, dall’America Latina all’Asia, alla Russia post-sovietica. Certo si tratta di operazioni traumatiche, perché avvengono in situazioni estreme, quando i Paesi interessati si trovano sull’orlo del collasso. I finanziamenti del Fmi sono condizionati all’impegno di introdurre drastiche riforme che spesso portano addirittura a cambiamenti di regime. Per quanto gli interventi della Troika siano stati spesso giudicati dagli europei come draconiani, in realtà numerose nazioni non europee li hanno criticati come accomodanti, soprattutto per quanto riguarda la ristrutturazione del debito pubblico». 
Nel 2011 Christine Lagarde invitò l’Italia a sottoporsi a un piano del Fmi e Draghi dalla Bce mandò una lettera al governo Berlusconi. Ci fu un complotto? 
«Nell’estate del 2011 si verificò un’improvvisa perdita di fiducia dei mercati internazionali nell’abilità del governo Berlusconi di gestire le crescenti difficoltà dell’economia italiana. Fino a quel momento l’Italia era riuscita a passare indenne attraverso la crisi finanziaria, dato che la sua esposizione alla bolla speculativa era limitata e grazie ad una gestione molto prudente del deficit. Però il prolungarsi della recessione, il continuo deterioramento dei crediti bancari ed il peso soffocante del debito pubblico alimentarono i timori dei mercati. La lettera della Bce chiese all’Italia di attuare alcune urgenti riforme strutturali, come quelle del mercato del lavoro e delle pensioni. Di fronte all’esitazione del governo Berlusconi il G20 esercitò forti pressioni affinché l’Italia accettasse qualcosa di molto simile ad una tutela internazionale, cioè una procedura di monitoraggio da parte della Troika sullo stato di avanzamento delle riforme, un intervento che all’epoca definii come “un programma senza prestiti”. In realtà, il monitoraggio non fu mai realizzato perché l’avvento del governo Monti portò rapidamente alle riforme richieste dalla comunità internazionale». 
L’Italia rischia ancora situazioni simili? 
«Finché non avrà riportato il debito pubblico a livelli sostenibili rimane esposta al rischio di improvvisi attacchi finanziari. I meccanismi di difesa delle istituzioni europee sono stati molto ampliati attraverso le politiche della Bce e gli strumenti del Fondo di stabilità, poco invece è stato fatto a livello nazionale e il rapporto debito/ Pil è continuato a crescere. Questo ha aumentato la dipendenza dell’Italia dalla protezione europea in caso di gravi turbolenze finanziarie. Non c’è motivo per supporre che tale assistenza non comporti condizioni altrettanto penalizzanti degli interventi della Troika, anche se probabilmente un programma per l’Italia avrebbe un carattere prevalentemente europeo dato che il Fmi sembra disponibile a fornire solo un’eventuale assistenza tecnica».