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 2017  dicembre 04 Lunedì calendario

Fortezza Mediaset: Berlusconi la blinda ma il mercato vuole la pace con Bolloré

Da oltre un anno Mediaset è diventata un barometro degli umori della Vivendi di Vincent Bolloré. Non solo il valore dell’azienda dipende dal quantum del risarcimento legato al mancato acquisto di Mediaset Premium, ma tutte le dichiarazioni dei francesi fanno ballare le quotazioni, perché Vivendi possiede il 28,8%, ovvero tre quinti del flottante del gruppo di Cologno. E ora anche la governance del leader delle tv commerciali viene ridisegnata in chiave anti Bolloré.
Fininvest, in vista dell’assemblea del 15 dicembre, ha infatti proposto delle modifiche allo statuto di Mediaset con le quali si passa dal sistema proporzionale puro al voto di lista, e dalla lista dell’azionista a quella del management. E proprio la lista del management potrebbe essere la mossa decisiva dei Berlusconi per arginare l’avanzata francese nel consiglio di Mediaset e, di fatto, blindarlo: in questo modo, del resto, Fininvest (primo azionista del Biscione con il 39,5%, senza tenere conto del 3,8% di azioni proprie) e Doris (terzo azionista con il 2,87%) potrebbero sempre votare una lista proposta dal management, cioè dall’ad Pier Silvio Berlusconi, senza sollevare problemi di “concerto”. Questa mossa però è osteggiata dai soci di minoranza, perché, dicono, pregiudica tutti gli azionisti al di fuori di Fininvest e si traduce in un “disvalore” per un gruppo ritenuto in teoria un modello di buon governo societario. È però difficile quantificare il danno che i Berlusconi potrebbero arrecare ai soci di minoranza se l’assemblea approvasse le modifiche dello statuto promosse da Fininvest: la governance, del resto, è importante ma anche difficile da ridurre in cifre tangibili, un po’ come il valore di un marchio che dipende anche dall’effetto scarsità. E Mediaset finora, nonostante le critiche di alcuni fondi attivisti come Amber, aveva lo statuto più “moderno” e rispettoso delle minoranze che c’è in Piazza Affari per un’azienda a controllo familiare.
Ciò non toglie che l’età e la permanenza media dei consiglieri del Biscione in cda, è di quelle che fanno pensare più a un club di tifosi, che a un organo eletto a suffragio universale. In questi giorni, peraltro, i proxy advisor ingaggiati da Fininvest stanno facendo proseliti per votare a favore delle modifiche statutarie. E sommando queste azioni con la quota dei Berlusconi (39,5%), con quella di Doris (che il 28 giugno in assemblea aveva il 2,87%) e con le altre azioni dei fondi Mediolanum (0,3%), di alcune fiduciarie e di altri amici, all’assise del 15 dicembre si arriverà sopra il 50,1%. Cifra importante anche se lontana dal quorum dei due terzi necessario per le assemblee straordinarie, ma comunque in questo caso sufficiente a varare la riforma. L’unica che potrebbe opporsi al nuovo statuto sarebbe infatti Vivendi, padrona del 28,8% ma con i diritti di voto limitati al 10%: i francesi però dopo il blitz con cui hanno rastrellato i titoli Mediaset e le denunce dei Berlusconi non possono votare nelle straordinarie per decisione dell’AgCom. E quindi Bolloré non riuscirà a bloccare la novità. E gli azionisti di minoranza sono contrariati. Oggi lo statuto di Mediaset prevede che il cda possa essere composto da 5 a 21 membri. Fininvest chiede di votare la riforma e passare da 7 a 15 membri (contro i 17 del cda attuale), ma così facendo limita a 2 (nel caso di un cda fino a 11 membri) od a 3 (nel caso di un cda tra 12 e 15 membri) il numero di ammini-stratori riservati alle minoranze. In proposito gli advisor di Fininvest ricordano «che Mediaset è una delle poche società che prevede un puro sistema proporzionale senza un bonus di maggioranza» e quindi la riforma della governance «è coerente con il quanto adottato dalle altre aziende quotate a Milano». Tuttavia per Iss, questa è un argomentazione insufficiente a convincere i soci a fare un passo indietro in virtù di una maggiore stabilita del cda eletto con il nuovo sistema, che riserva alle minoranza solo 2-3 seggi. E forti critiche ci sono anche sull’altro tema spinoso della riforma (e che forse interessa di più a Fininvest), quello che consentirà al management di presentare una propria lista. Solo 13 aziende di Piazza Affari prevedono questa opzione nello statuto, e sono tutte società ad azionariato diffuso come Prysmian, quindi senza un socio forte come Fininvest. «La proposta della lista del management – scrivono gli esperti di Iss – non è allineata con le pratiche di mercato; la maggior parte delle società che l’ha introdotta è ad azionariato diffuso». Sempre secondo Iss «la lista del management rischia di ridurre il numero dei rappresentanti del board» appannaggio delle minoranze. Anche perché, dicono i più maliziosi, così facendo si blinda di fatto il cda Mediaset, dato che Fininvest e Doris potrebbero sempre votare una lista proposta dal management, senza insinuare dubbi (che invece secondo alcuni soci di minoraza ci sarebbero) nel caso in cui Doris votasse troppo spesso a favore della lista Fininvest, regalandogli di fatto la maggioranza dell’assemblea. Se poi Doris, che è il terzo azionista del gruppo dopo Berlusconi e Bollorè, volesse presentare una sua lista di minoranza, non potrebbe perché sarebbe collegata a quella di Fininvest. Quando nel 2008, i Benetton, soci di Generali all’1%, proposero una loro lista per l’elezione del collegio sindacale del gruppo di Trieste, la Consob la bocciò in quanto fu collegata a quella di Mediobanca (che allora aveva il 15% del Leone), di cui la famiglia veneta possedeva il 2,1%, e partecipava al sindacato di blocco. Va detto pero, che da un anno a questa parte, nessuna valutazione sul Biscione ha più senso. Infatti, per quanto gli analisti si affannino a registrare che la pubblicità cresce più del settore e che l’azienda guidata da Pier Silvio Berlusconi ha fatto meglio sul fronte del taglio dei costi, rispetto al piano annunciato a gennaio, l’unica cosa che gli investitori vogliono sapere è come e quando verrà sancita la pace con Vivendi. Che Mediaset dal punto di vista legale abbia ragione, è assodato. Tanto che Sergio Erede, che con il gruppo di Cologno non aveva mai lavorato, pare sia sceso in campo al fianco dei Berlusconi perché la possibilità di chiudere con perdite la trattativa coi francesi sarebbe stavolta inesistente. Ma il primo accordo quadro che lo scorso ottobre Erede ha mandato allo studio Clearly Gottlieb, che assiste Vivendi, è stato stracciato e si è tornati al punto di partenza. La strategia legale di Mediaset è quella di chiedere l’esecuzione del contratto, ovvero obbligare Vivendi a prendersi Premium. I francesi invece provano ad ammansire il gruppo delle tv paventando futuri accordi con Telecom. Morale, la soluzione più praticabile pare quella di un maxi risarcimento per il mancato acquisto della pay tv, che potrebbe avere delle ricadute sull’azionariato di Cologno, che si è fatto troppo affollato. Del resto anche Mediaset, che a fine giugno ha chiesto e ottenuto dall’assemblea di aumentare il buy back fino al 10% del capitale, poi non ha dato seguito alla delibera per non assottigliare oltre il flottante. Detto questo, tutti restano convinti che si vada verso una prossima soluzione stragiudiziale. E lo spostamento a gennaio dell’asta per i diritti tv del calcio pare fatto apposta per dare più tempo a Bolloré e Berlusconi di trovare un accordo. Con la pace Fininvest-Vivendi, la possibilità di una lista del management di Mediaset aprirebbe anche i giochi a una governance condivisa. Il maxi assegno dei francesi invece, darà a Premium più risorse per il calcio, un contenuto che potrebbe essere rivenduto anche agli utenti di Timvision. Tuttavia sul quantum del risarcimento che Mediaset riuscirà a incassare, gli analisti hanno varie stime: si va da un minimo di 350 milioni di Mediobanca a un massimo di 760 milioni di Equita, che poi corrispone al valore attribuito a Premium dal vecchio contratto del marzo 2016.