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 2017  dicembre 04 Lunedì calendario

Donato Carrisi: «I buoni? Mi fanno schifo

Donato Carrisi è un uomo dai molti talenti. Il più divertente, e forse meno noto, riguarda la sua mimica facciale. Carrisi è capace di sollevare un sopracciglio alla volta. Riesce a creare un arco alto sopra un occhio, come un manga, e rimanere immobile con l’altro. Se ne volete una prova, andate a vedere la foto sul suo profilo Facebook uno scatto di Marina Alessi – in cui si esibisce in questa espressione perplessa mentre una mano che spunta alla sua sinistra gli punta una pistola alla tempia. E se credete che sia semplice, mettetevi davanti allo specchio e provate a farlo: siccome si tratta di una dote genetica, probabilmente il 90% di voi rinuncerà dopo essersi visto contorcere il volto nelle smorfie più strane.
Un altro è quello che ha messo in luce più di recente. Con La ragazza della nebbia, tratto da un suo romanzo, ha debuttato alla regia e l’ha fatto subito alla grande, con una produzione importante e un cast stellare: Toni Servillo, Alessio Boni, Jean Reno, Michela Cescon. Uscito in anteprima al Festival del cinema di Roma, il film continua a rimanere saldo ai primi posti delle classifiche dei più visti ed è già stato venduto in altri 15 Paesi.
Ma il talento che l’ha reso famoso è, si sa, quello di scrittore. Da quando nel 2009, a 36 anni, ha debuttato con Il suggeritore (edito da Longanesi, come tutti i suoi titoli successivi) Donato Carrisi è diventato uno degli autori di thriller più importanti d’Italia e senza dubbio uno dei più venduti al mondo con oltre 3 milioni di copie complessive. I suoi sette romanzi sono stati tradotti in 30 Paesi, compresi gli Stati Uniti, fatto decisamente poco comune tra gli autori di casa nostra. E ora esce il suo nuovo noir, L’uomo del labirinto (400 pagg., euro 19). 
La protagonista è Samantha, rapita quando aveva 13 anni e riapparsa ora, 15 anni dopo. Su di lei e su quello che le è accaduto indagano un detective privato, Bruno Genko, alla caccia di chi l’ha tenuta segregata, e un medico, il dottor Green, che vuole scandagliare la mente della vittima per farsi svelare i segreti del labirinto dove è stata rinchiusa così a lungo. Una storia inquietante, un incubo dove le tenebre possono assumere le sembianze solo in apparenza rassicuranti di un coniglio e dove quello che sembra un gioco diventa in realtà una partita scacchi con la morte.
Carrisi, come è nata questa storia?
«La verità? L’idea mi è venuta la scorsa primavera, mentre stavamo girando La ragazza nella nebbia in Alto Adige. Posso dire anche il momento preciso, erano le 4 di mattina ed ero sotto la doccia al termine di una lunga sessione di riprese. Nei giorni successivi, a mano a mano che la trama diventava più chiara nella mia testa, prendevo appunti dietro i fogli della sceneggiatura. Il cast mi osservava preoccupato, temendo che io stessi apportando chissà quali modifiche al copione. Invece il mio cervello stava semplicemente già lavorando all’Uomo del labirinto».
Per essere un regista all’esordio, in più con un cast di tutto rispetto, ha dimostrato molta sicurezza.
«Mi ha aiutato il lavoro che ho fatto come sceneggiatore per una decina d’anni prima di iniziare a scrivere romanzi. Ho avuto la fortuna di avere bravi maestri e di lavorare con produttori importanti come Valsecchi, Manzotti e Claudio Mancini, che aveva a sua volta collaborato con Sergio Leone. Insomma, conoscevo già bene i meccanismi, tecnici e umani, per far funzionare tutto al meglio».
Ha diretto una storia che ha anche scritto: un vantaggio o uno svantaggio?
«Un vantaggio, senza dubbio. In più io ormai quando inizio a pensare a un romanzo cerco già di immaginarlo come film. Il che significa prima di tutto pensare ai costi, che devono essere contenuti. Senza togliere niente a nessuno, chiunque può realizzare Guerre Stellari avendo 350 milioni di dollari a disposizione. Molto più difficile girare la prima puntata di una fiction con 60 mila euro di budget, senza esplosioni o ricostruzioni digitali».
Aveva le idee chiare anche sul cast?
«Ho pensato a Toni Servillo sin da quando ho iniziato a scrivere la storia. Nella mia testa, l’agente Vogel è sempre stato lui. Senza Toni non ci sarebbe potuto essere questo film».
Che cosa servirebbe al cinema italiano, secondo lei?
«Buoni autori che scrivano storie coinvolgenti per il pubblico. E magari bisognerebbe evitare un’eccessiva concentrazione di ruoli. Ormai ci sono attori che oltre a recitare diventano registi, sceneggiatori e persino produttori. Un po’ troppo. Anche perché, se fai tutto tu, chi ti può dare qualche consiglio sul film? Il costumista?».
Torniamo al romanzo. Nell’Uomo del labirinto ritroviamo Mila Vasquez, del Suggeritore. Così come un altro suo personaggio, Marcus, è stato protagonista di una trilogia. Non ha mai pensato di dedicarsi a una sola serie e a un solo eroe?
«Nemmeno per sogno. Prima di tutto perché non mi affeziono ai miei personaggi. E poi perché mi mette tristezza pensare a grandi autori, da Conan Doyle a Camilleri, diventati poi schiavi delle loro creature, per quanto straordinari possano essere Sherlock Holmes e Montalbano. Il bello di scrivere è proprio la possibilità di poter andare ovunque con la fantasia, vivere mille vite diverse, evadere e non rimanere reclusi in un appartamento di Baker Street o nel Commissariato di Vigata».
Nei suoi thriller spesso il confine tra il bene e il male non è così definito, gli eroi non sono esattamente senza macchia
«È vero. Nei gialli tradizionali sai sempre da che parte stare: da quella dell’investigatore che dà la caccia al cattivo di turno. Nei miei libri invece tutti portano delle maschere, come succede nella vita reale spesso gli innocenti non lo sono fino in fondo, e di conseguenza scegliere il bene senza rifletterci troppo può diventare un rischio. Inoltre io diffido da quelli che dicono di essere buoni perché sono quasi sempre in malafede: sono persone con la tendenza ad autoassolversi e a giudicare gli altri senza averne diritto. Preferisco chi ammette di avere delle zone d’ombra, è più onesto. E più divertente».
Lei è un uomo cattivo, lo sa?
«Sì, lo so. Ma non posso farci niente: i cosiddetti buoni mi fanno schifo».