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 2017  novembre 30 Giovedì calendario

«Le sanzioni Ue alla Russia fanno male a voi»

Da Mosca a Roma e ritorno in giornata. Sergej Viktorovic Lavrov vive così, tra aerei e summit. Consigliere sovietico all’Onu negli anni Ottanta, prima del crollo del Muro di Berlino, è dal 2004 ministro degli Esteri della Russia di Putin, del quale è uno degli uomini più fidati, nonché più conosciuti fuori dalla Grande Madre. Domani sarà in Italia, dove presenzierà, per la terza volta, al Forum Med, promosso dal Ministero degli Affari Esteri e dall’Ispi, l’Istituto per gli studi di politica internazionale. Prima di questo appuntamento, Lavrov ha concesso a Libero in esclusiva questa intervista. 
Quali argomenti tratterà nel Sergej Lavrov suo intervento al Forum Mediterraneo? 
«Mi lasci prima dire che grazie all’intenso lavoro svolto dagli organizzatori, in poco tempo il Forum si è affermato come autorevole e adeguata piattaforma di discussione dei problemi attuali dell’agenda internazionale rispetto alla regione mediterranea. Durante le due precedenti edizioni sono stati discussi temi legati alla sicurezza del Mediterraneo, alla composizione delle crisi e dei conflitti in Medio Oriente e in Nordafrica, al contrasto al terrorismo internazionale. Oggi la regione deve ancora affrontare numerose sfide. Intendo in particolare la permanente instabilità politica e socio-economica in alcuni paesi, la minaccia terroristica, la diffusione nella società di sentimenti radicali, la crescita incontrollata dei flussi migratori. 
Prevedo di riservare particolare attenzione a tali problemi, ma anche all’approccio russo per superarli. Intendo cioè ribadire che la Russia è disponibile alla collaborazione costruttiva con tutti gli attori nell’interesse della pace, della stabilità e della sicurezza nel Mediterraneo. Solo unendo le forze si potrà ottenere questo risultato». 
In una recente intervista al nostro quotidiano, l’ambasciatore della Russia in Italia, Sergej Razov ha sottolineato il grave danno che le sanzioni antirusse arrecano all’economia italiana e dell’Unione Europea. Lei cosa ne pensa? 
«Effettivamente le sanzioni danneggiano la collaborazione della Russia con la Ue e i suoi Stati membri. Per quanto ne so, anche l’ambasciatore italiano in Russia, Cesare Ragaglini, in una recente intervista al Corriere della Sera, ha rimarcato la questione». 
Chi paga il prezzo più alto? 
«Oggi è evidente che le sanzioni imposte dai burocrati di Bruxelles, su indicazione di Washington, hanno colpito come un boomerang i produttori europei, i quali hanno perso alcune posizioni sul mercato russo e continuano a sopportare perdite rilevanti, mentre l’America non ha subito danni, in quanto il suo interscambio commerciale con la Russia ha numeri infinitesimali. Si verifica dunque che l’establishment americano persegue i propri obiettivi antirussi a discapito degli europei e per mano degli europei stessi. Vi propongo di riflettere su questo. Di recente ho avuto la possibilità di incontrare i rappresentanti di società straniere che operano nel nostro Paese. La loro posizione è univoca: le restrizioni e l’ingerenza della politica nella vita economica non sono utili al business». 
Quando pensa che Bruxelles ritirerà le sanzioni? 
«La domanda va posta non a Mosca, ma a Bruxelles. Speriamo che nelle strutture della Ue qualcuno trovi la forza di rifiutare l’approccio alla politica russa secondo il principio del “minimo comun denominatore” e smetta di farsi portare al guinzaglio da un piccolo ma agguerrito gruppo di russofobi all’interno della Ue. Per parte nostra, svilupperemo la collaborazione ai ritmi per i quali i partner europei sono pronti». 
L’Occidente sarebbe riuscito a sconfiggere l’ISIS in Siria senza l’aiuto delle Forze Spaziali Russe? 
«Dalla sua domanda il lettore potrebbe avere l’erronea impressione che l’Occidente combatta da solo contro l’ISIS e che la Russia gli dia una mano. La situazione invece è diversa. La cosiddetta coalizione anti ISIS a guida americana è stata costituita scavalcando il Consiglio di Sicurezza dell’Onu e agisce in Siria senza coordinamento con il governo legittimo del Paese, dunque in palese contrasto con il diritto internazionale. In merito all’efficacia del suo intervento, già a metà del 2015 era chiaro che essa non era in grado di rispettare gli impegni assunti nella lotta al sedicente Stato Islamico. L’ISIS aveva esteso il suo califfato e aveva iniziato a battere moneta. Quasi il 70% del territorio siriano era finito nelle sue mani. Nonostante le roboanti dichiarazioni di vittoria dello stato maggiore della coalizione, l’ISIS continuava a diffondere la propria ideologia antiumana e a commettere cruente azioni intimidatorie. Consapevole delle conseguenze che avrebbe potuto avere il rafforzamento di questa o analoghe strutture terroristiche, la Russia ha deciso di offrire il proprio aiuto al governo siriano nella lotta alla diffusione del terrorismo in qualsiasi sua forma, indipendentemente dalle caratteristiche nazionali o religiose». 
Come si è svolto l’intervento russo? 
«Nei due anni di operazioni delle Forze aerospaziali russe, sono stati distrutti più di 900 campi di addestramento, oltre 660 impianti di produzione di munizioni e 1500 mezzi bellici appartenenti ai terroristi. Sono stati liberati circa mille fra centri abitati e città. Al momento circa il 95% del territorio siriano è stato ripulito dall’ISIS. È stato avviato un processo di ripristino della vita pacifica, un milione e 120.000 persone, tra profughi e sfollati, sono ritornate alle loro case, di cui 660.000 nel 2017. Vorrei inoltre ribadire con particolare forza il fatto che nella nostra azione in Siria noi ci atteniamo rigidamente ai principi del diritto internazionale». 
Che sviluppi prevede in Siria? 
«Nel 2015 il presidente Putin ha avviato la costituzione di un’ampia coalizione internazionale sotto l’egida dell’Onu. I nostri appelli alla lotta congiunta contro l’ISIS, purtroppo non sono stati ascoltati in tempo. Solo piuttosto recentemente i partner occidentali hanno capito che la lotta contro il terrorismo deve essere, come si dice, una lotta di tutto il mondo. Un evento importante in questo senso è stato la dichiarazione sulla Siria dei presidenti di Russia e Usa ai margini del summit APEC di Da Nang l’11 novembre. La dichiarazione conferma l’obiettivo comune di portare fino in fondo la battaglia contro l’ISIS nella Siria occidentale. Le prospettive di nuove forme di collaborazione nella battaglia al terrorismo sono state discusse nell’ambito di una conversazione telefonica tra Vladimir Putin e Donald Trump, svoltasi il 21 novembre». 
Mosca crede in un miglioramento delle relazioni con gli Usa nonostante il «Russiagate» e gli atti non amichevoli di Washington? 
«La situazione delle relazioni bilaterali resta oltremodo complessa. L’establishment di Washington è stato sommerso da un’ondata di umori russofobi, provocata da determinate forze politiche che non intendono accettare i risultati delle elezioni presidenziali Usa dell’anno scorso. Al momento è difficile prevedere le conseguenze della complessa fase attuale. La polarizzazione delle opinioni in Usa ha raggiunto un livello mai visto negli ultimi decenni e non rimane confinata alla sfera politica ed economica, ma si allarga a tutti gli aspetti della vita sociale». 
In tutto questo il presidente Donald Trump cosa fa? 
«Apparentemente la Casa Bianca non ha ancora elaborato un approccio coerente nei confronti della Russia. Il presidente Trump, come durante la campagna elettorale, conferma il suo intento di instaurare rapporti normali e forme di collaborazione su temi di attualità internazionale. Ne ha parlato più di una volta al presidente Putin sia per telefono, sia di persona, anche durante il summit di novembre a Da Nang. In pratica però, purtroppo, molti atti concreti di Trump sono caratterizzati da una certa inerzia e, nella sostanza poco si discostano dalla linea di Obama. Su spinta della lobby antirussa, Washington intraprende sempre nuove iniziative ostili in diversi settori, come per esempio l’ampliamento delle restrizioni unilaterali, l’attuazione di progetti antimissilistici globali, l’incremento della presenza militare americana e della Nato ai nostri confini, gli sforzi per discreditare la politica estera della Russia». 
Quindi lei non è ottimista per il futuro? 
«Sull’onda dell’ossessione russofoba, gli Stati Uniti hanno adottato la legge del “Contrasto ai nemici dell’America mediante sanzioni” diretta contro di noi. La chiusura da parte delle autorità americane del Consolato Generale di San Francisco e l’occupazione di cinque strutture diplomatiche di proprietà del nostro Stato sono da considerarsi attacchi di una gravità senza precedenti. E dunque per il momento è difficile attenderci un qualsiasi passo positivo da parte di Washington. Vista la crescita oltreoceano della russofobia, le opportunità che la collaborazione nelle questioni bilaterali e internazionali potrebbe offrire rimangono in gran parte non sfruttate. Il fatto che gli USA abbiano a livello legislativo bollato la Russia come “il nemico” è sciocco e irresponsabile. Noi dalla Russia non guardiamo agli Usa nella stessa ottica. Al contrario abbiamo sempre avuto un atteggiamento di rispetto nei confronti del popolo americano e dei suoi successi». 
Come intendete risolvere il problema? 
«Continuiamo ad agire pragmaticamente, senza aspirare allo scontro. Partiamo dall’assunto che è interesse comune di Russia e Usa unire le forze per combattere il terrorismo, contrastare insieme il narcotraffico, la diffusione delle armi di distruzione di massa, la criminalità organizzata. Nella regolazione delle crisi regionali acute, il coordinamento è sempre necessario. Come più volte sottolineato dal presidente Putin, la Russia è aperta al lavoro costruttivo con gli Usa in ogni campo, è disponibile a percorrere la propria parte di cammino per la stabilizzazione e il risanamento delle relazioni, degenerate negli ultimi anni per responsabilità non nostra. Speriamo che in un prossimo futuro il buon senso torni a regnare nei corridoi del potere di Washington. Naturalmente però continueremo anche in futuro a rispondere a ogni azione ostile secondo il principio della reciprocità». 
La Russia ha risolto positivamente i problemi legati alla migrazione proveniente dalle Repubbliche ex sovietiche. Cosa dovrebbero fare la Ue e i suoi Stati membri per fermare l’ondata migratoria dall’Africa settentrionale condizionata dalla criminalità organizzata internazionale? 
«La grande crisi migratoria che ha colpito l’Europa è diretta conseguenza della feroce politica di esportazione di un regime statuale, dell’ingerenza negli affari interni di Stati sovrani prima di tutto del Medio Oriente e del Nord Africa. Queste azioni poco lungimiranti hanno provocato l’indebolimento o il collasso delle istituzioni, catastrofi umanitarie e un’ondata di terrorismo ed estremismo che a sua volta ha portato a un esodo di massa dalla regione. È evidente che non è possibile risolvere efficacemente i problemi migratori dell’Europa senza eliminarne le cause primarie. È necessario raddoppiare gli sforzi per comporre pacificamente per via politico-diplomatica le crisi e i conflitti, in primis in Siria, Libia, Iraq e Yemen. È indispensabile fornire ai Paesi della regione collaborazione nel rafforzamento o nel ripristino della statalità, per la ripresa socioeconomica e l’avvio di un processo di solido sviluppo». Oggi è di essenziale importanza garantire un opportuno controllo dei flussi migratori, soprattutto per impedire che terroristi giungano nei paesi europei infiltrandosi tra coloro che hanno effettivamente bisogno di aiuto. È inaccettabile che i profughi diventino oggetto di manipolazione politica da parte di forze che soffiano sul fuoco dell’odio etnico, religioso e sociale, ma è altrettanto inammissibile che i campi profughi vengano sfruttati per reclutare o addestrare combattenti. Al contempo è importante contrastare la xenofobia, il razzismo e l’intolleranza nei confronti dei migranti stessi». 
Nel concreto come pensate di agire? 
«Siamo pronti a proseguire la collaborazione con la Ue nell’ambito della migrazione, a uno scambio di esperienze per risolvere i problemi migratori. Siamo interessati alla rapida ripresa dei contatti nel quadro del Dialogo Russia-UE sulla migrazione. Naturalmente siamo disponibili a rafforzare la cooperazione con l’Unione Europea nelle questioni che riguardano il contrasto al terrorismo. E infine. Noi partiamo dal fatto che i Paesi che hanno attivamente partecipato alla destabilizzazione di vaste aree dei Paesi mediorientali e nordafricani debbano assumersi per primi la responsabilità maggiore di fornire assistenza a profughi e migranti forzati. In questo senso stiamo osservando una progressione in alcuni Paesi del concetto di condivisione delle responsabilità come tentativo di spostare il relativo onere sulle spalle di altri». 
Come valuta la situazione nel sud-est dell’Ucraina? 
«La situazione nel sud-est dell’Ucraina resta complessa. Non si riesce ad arrivare a uno stabile cessate-il-fuoco perché Kiev non desidera rinunciare all’opzione della forza nel problema del Donbass». 
Non è stata dichiarata una tregua nella Regione? 
«La tregua, dichiarata, in occasione dell’avvio dell’anno scolastico e sostenuta dai leader del quartetto di Normandia, nonostante abbia favorito un significativo alleggerimento della tensione sulla linea di contatto, non ha portato a una completa interruzione delle sparatorie. I rapporti OSCE testimoniano di continue violazioni del regime del silenzio di cui sono responsabili le Forze Armate dell’Ucraina. In questo non c’è nulla di sorprendente. Il presidente Poroshenko in persona ha promesso il riposizionamento in qualsiasi momento dei reparti missilistici e di artiglieria per utilizzare queste armi, vietate dagli Accordi di Minsk, contro la popolazione pacifica del Donbass. E non si è trattato di pure minacce verbali. Per esempio la sera del 5 novembre le Forze armate ucraine hanno colpito i sobborghi di Donetsk utilizzando il sistema “Grad”». 
Sono accuse molto gravi... 
«L’Ucraina viola gli accordi dei leader del “Formato Normandia” di Berlino dell’Ottobre 2016 per la separazione di forze e mezzi in tre aree pilota sulla linea di contatto. Kiev si rifiuta di riconoscere che la chiave per normalizzare la situazione rimane la ricerca di un compromesso nell’ambito di un dialogo diretto con il Donbass. È necessario risolvere il problema di dotare il sudest del Paese dello status speciale fissato nella Costituzione, svolgere elezioni locali nella regione, concedere l’amnistia e attuare un reale decentramento. Senza tutto questo è impossibile raggiungere una solida ricomposizione del contrasto». 
La Crimea resterà per sempre a far parte della Russia? 
«L’argomento è chiuso una volta per sempre. Ricordo che stiamo parlando della libera e democratica espressione della volontà popolare degli abitanti della Crimea che hanno compiuto una scelta consapevole a favore della pace e della prosperità. Questa forma di attuazione del diritto all’autodeterminazione era l’unico modo possibile per tutelare gli interessi vitali del popolo davanti allo scatenarsi in Ucraina di elementi nazionalisti radicali che hanno preso il potere con il golpe del febbraio 2014. Oggi è palese che, grazie alla scelta liberamente espressa nel referendum, gli abitanti della penisola hanno potuto evitare gli orrori di una guerra civile e tutto quello che i vertici kieviani stanno facendo da più di tre anni in Donbass». 
Gli occidentali filorussi sostengono che Putin in Russia stia creando un modello di civiltà basato su valori tradizionali, cristianesimo e difesa della famiglia alternativo al modello globalistico. Lei che ne pensa? 
«La Russia, storicamente fondata sulla coesistenza pacifica di culture, religioni ed etnie diverse, riserva particolare attenzione alla coesione della società intorno a stabili punti di riferimento morali e spirituali. Proprio in questo individuiamo la componente principale di una politica che garantisca lo sviluppo dinamico e progressivo del Paese e ne consolidi la posizione in campo internazionale. Inoltre noi non imponiamo niente a nessuno, non insegniamo come vivere agli altri. Abbiamo rispetto del diritto dei popoli del mondo di scegliere in autonomia i loro modelli politici e socio-economici». 
In Occidente non ravvisa alcuna corrispondenza di questo? 
«Ci preoccupa la politica portata avanti da una serie di Paesi occidentali che vorrebbero sostituire, e non solo a casa loro, i valori comuni a tutta l’umanità con valori pseudo-liberali. I tentativi di esportare con la forza tali valori perdurano, suscitando così la resistenza di altri Paesi che aspirano a conservare il proprio sistema di vita e la propria identità nazionale. Siamo convinti che alla base della solidarietà della comunità mondiale debbano esserci gli ideali tradizionali comuni a tutte le principali religioni e culture mondiali. È evidente che senza rafforzare i principi etici della vita internazionale è impossibile risolvere efficacemente i numerosi problemi del nostro tempo. Continueremo a favorire la costruzione di un dialogo tra Stati basato sui principi dell’onestà, della verità e della giustizia». 
La Russia sta costruendo un nuovo mondo multipolare. In cosa consiste la vostra concezione geopolitica? 
«Prima di tutto desidero ribadire che noi non stiamo costruendo nulla. La configurazione di un sistema internazionale è determinata da fattori oggettivi. È evidente che qualsiasi tentativo di costruire o adattare a se stessi l’ordine mondiale, è destinato al fallimento. Gli eventi di quest’ultimo periodo testimoniano che gli sforzi di un ristretto gruppo di Stati, con gli Usa alla guida, di costituire un modello unipolare di ordine mondiale, di adattare gli istituti della guerra fredda alla realtà attuale hanno fatto fiasco. Il mondo non è diventato né occidentecentrico, né più sicuro e stabile. Le vecchie crisi e i vecchi conflitti rimangono irrisolti, compaiono nuove minacce alla sicurezza. Particolarmente pericolosa rimane l’impennata senza precedenti del terrorismo internazionale». 
Fin qui l’analsi degli altri. E Mosca cosa fa? 
«Oggi parliamo dell’affermazione di un ordine mondiale più giusto, democratico, policentrico o multipolare. Si tratta di un processo oggettivo legato alla comparsa e al consolidamento di nuovi centri di forza economici e politici nella regione Asia-Pacifico, in America Latina e in Africa, che tentano di condurre una propria politica estera e partecipano attivamente alla formazione di un’agenda internazionale e regionale. Il multipolarismo incarna la diversità delle tradizioni culturali e storiche e dei sistemi politici ed economici, l’aspirazione dei popoli a determinare il proprio destino. I tentativi di rallentare questo percorso, di farlo retrocedere, di mantenere le proprie posizioni dominanti sono forieri solo di un rafforzamento del caos e dell’instabilità. È nel comune interesse rendere solido e pronosticabile il processo di formazione di una rinnovata architettura internazionale. A questo fine è necessario ritornare ai principi chiave della vita internazionale, fissati nella Carta dell’Organizzazione Mondiale, che comprendono la parità sovrana degli Stati, la non ingerenza negli affari interni, la composizione pacifica delle controversie».