Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  novembre 30 Giovedì calendario

Storie di suicidi con il veleno, da Socrate a Goring

Il veleno letale evoca ricordi e immaginazioni tra i più disparati, tra memoria storica e immaginazione letteraria, fiaba e cronaca giudiziaria. È una minaccia, ma anche la più rapida ed efficace via di fuga. È un’ipotesi storica che si affaccia quando si riaprono i dossier di tante morti illustri, archiviate con fretta eccessiva. È uno degli accessori tipici del corredo delle spie, negli anni d’oro della Guerra Fredda: un finto dente pieno di cianuro, da ingoiare quando tutto è perduto, evitando così i rischi di un interrogatorio. In teatro, l’impiego più geniale di una boccetta di veleno è probabilmente quella del giovane Shakespeare, in quella commedia che all’improvviso si trasforma in tragedia che è Romeo e Giulietta. Perché un finto veleno, quando la sventura interviene nei fatti umani, può essere più micidiale di uno vero. 
Tra le morti per veleno della storia del romanzo, la più straziante la scrisse Flaubert, nelle ultime pagine di Madame Bovary: una fine lenta e dolorosa, sproporzionata alle colpe dell’eroina. Negli stessi anni, in una delle poesie erotiche più celebri dei Fiori del male, Baudelaire trovava il veleno più letale nella «saliva che morde» dell’amata, più potente del vino e dell’oppio. Metafora o realtà, il veleno è un compagno costante delle vicende umane. 
Non stupisce se quello del generale croato Slobodan Praljak è un gesto che ci turba per il suo sapore antico, da repertorio tragico, capace di evocare tutto ciò che, nell’esperienza umana del male e del dolore, è imperituro, come certe malattie fulminanti, o le catastrofi naturali. A metà degli anni Novanta fu proprio la guerra civile nella ex Jugoslavia a ricordarci, con la sua oscena brutalità, che gran parte dei progressi del genere umano, a esaminarli bene, non sono che leggere mutazioni del costume, smottamenti di superficie. Tutto ciò che di atroce e indicibile accadde in Bosnia, era ancora più atroce e indicibile perché sembrava uscire direttamente da un capitolo di un libro di storia o da un romanzo del passato. L’assedio di Sarajevo polverizzava, per la sua lunghezza, il terribile record di Leningrado. La gente moriva di fame e di freddo come durante la Guerra dei Trent’Anni. L’inverno stesso diventava un importante fattore strategico, come durante le campagne napoleoniche. 
Ma il tragico andava a braccetto col pacchiano. I discorsi dei criminali di guerra, i vessilli, i giuramenti, i miracoli: era un massacro che assomigliava in maniera disgustosa all’involontaria parodia di un massacro. Mai la retorica del suolo e della stirpe aveva rivelato il suo volto criminale in maniera così evidente. I signori della guerra, anticipando i fasti medievali del Califfato, nutrivano un culto, insieme osceno e ridicolo, per tutti quegli atteggiamenti da sagra di paese che potessero richiamare le virtù del passato. È su questo sfondo che la boccetta di veleno ingerita da Praljak di fronte alla corte dell’Aia acquista una sua terribile coerenza. Praljak era un uomo notevole: un ingegnere, ma anche un regista, diplomato all’Accademia d’Arte Drammatica di Zagabria. Ed ha scelto di morire evocando un archetipo memorabile. Ma gli archetipi sono complessi, e pericolosi da maneggiare. Significano sempre qualcosa di più di quello che, in una data occasione, vorremmo che significassero. 
In ogni imitazione di un archetipo, si afferma qualcosa e spunta l’ombra del suo contrario. Ebbene, il mondo antico ci ha consegnato i fantasmi di due grandi avvelenati: Socrate e Cleopatra. La storia del primo è quella di chi accetta di bere la cicuta potendo sempre farne a meno, percorrendo lietamente il sentiero della sua sorte proprio perché fino all’ultimo esiste una via di scampo. Nella fine di Cleopatra, così come ce la racconta Plutarco, il veleno ha tutt’altro significato. Il celebre aspide è una via di scampo, una sfida, l’estrema affermazione di una volontà che non intende essere giudicata da altri che da se stessa. Non spetta a me giudicare come e quanto il generale Praljak abbia meditato su questa spinosa contraddizione. Sono portato a vedere un barlume di dignità in ogni atto di coraggio, per quanto disperato. Ma non posso evitare di pensare che il filosofo ateniese e la regina egiziana rappresentino due possibilità opposte e inconciliabili dell’agire umano. Il veleno di Socrate si è trasformato nella linfa di un’intera civiltà. Possiamo dire che ha cambiato il mondo. Proprio il contrario di quello di Cleopatra, che col mondo ha regolato solo una questione privata, un rapporto di forze.